casse di zinco afghanistan

CULTURA: Quelle (maledette) casse di zinco della guerra sovietico-afghana

Oggi, nel bel mezzo della crisi afghana e a 30 anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, niente risulta più azzeccato di immergersi nella lettura di Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievič o di guardarsi Cargo 200 (Gruz 200), piccolo capolavoro cinematografico del 2007 scritto e diretto da Aleksej Balabanov. Entrambe dedicate alle vittime dell’ennesima grande tragedia della storia sovietica, la guerra in Afghanistan tra il 1979 e il 1989, queste due opere ci aiutano a capire chi sono gli afgancy e cosa è avvenuto in quelle zone nel corso dell’ultimo decennio di vita dell’Unione Sovietica.

Gli afgancy di Svetlana Aleksievič 

“Continuo a ripetermelo: non scriverò più una riga sulla guerra”. Queste le primissime parole della scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 2015, che nel suo Ragazzi di zinco [e/o 2003], narra il sacrificio compiuto dai sovietici in Afghanistan in nome di un’ideologia mancata. Lasciando la parola a reduci, invalidi, vedove e madri dei caduti per indagare l’anima delle persone, la giornalista bielorussa – già autrice di Preghiera per Černobyl’. Cronaca del futuro [e/o 2002] – presenta la guerra dal punto di vista umano, dando spazio ai sentimenti e alle emozioni contrastanti delle persone che ne sono state coinvolte. 

“Chi ha combattuto questa guerra, in prima linea? Le madri. L’hanno fatta loro questa guerra. Mentre il popolo non ha sofferto. Il popolo non sapeva.” (Un maggiore propagandista)

I cosiddetti afgancy, come vengono chiamate le giovani reclute sovietiche partite alla volta dell’Afghanistan in nome del “dovere internazionalista”, della “vigilanza contro gli intrighi dell’imperialismo” e del “sostegno per la libertà e l’indipendenza dei popoli”, si confidano a Svetlana Aleksievič narrando fatti ed eventi che sono stati taciuti troppo a lungo. 

Nell’arco di quattro anni, la scrittrice raccoglie le testimonianze di queste vittime di un errore politico, tracciandone un quadro denso di drammaticità. Perché quel “Vietnam russo” non lascia posto all’eroismo, ma solo a reduci che sono stati ingannati dall’ideologia comunista: si diceva loro che era necessario aiutare il popolo afghano in nome dell’amicizia fra i popoli, tanto che in patria nessuno pensava si trattasse di una guerra vera, e nessuno si chiedeva come mai di punto in bianco morissero giovani diciannovenni. Nessun eroe di guerra: chi riusciva a tornare, finiva per diventare un emarginato.

Quelle maledette bare di zinco

“Faccia a meno di scrivere della fraternità fra afgancy. Non esiste. Non ci credo. In guerra, a unirci era la paura. Eravamo stati tutti ingannati allo stesso modo, e tutti quanti volevamo solo vivere e ritornare a casa nostra.” (Soldato addetto ai lanciabombe)

Di quegli afgancy, uomini e donne che furono pronti a dar la vita per “la grande causa internazionalista e patriottica”, oltre 14mila tornarono in Unione Sovietica sui famosi tulipani neri, gli aeroplani che riportavano in patria i caduti chiusi in bare di zinco. Casse sigillate impossibili da aprire, su cui madri e vedove riversavano le loro lacrime e la loro frustrazione, non sapendo nemmeno se ci fosse un corpo su cui pregare o piangere. Le bare di zinco arrivavano di nascosto, le sepolture avvenivano in segreto. E guai a parlarne, tanto nessuno ci avrebbe creduto.

Una scena della pellicola di Aleksej Balabanov (regista di Brat, noto e premiato film del 1997) è ambientata proprio durante il culmine della guerra sovietico-afgana, nel 1984, e cattura perfettamente le testimonianze riportate da Svetlana: all’aeroporto un gruppo di nuove reclute pronto per essere inviato in Afghanistan si precipita sull’aereo cargo dal quale sono appena state scaricate delle bare di zinco. Il titolo dell’opera di Balabanov, Cargo 200, fa riferimento proprio ai quei voli militari che trasportavano in patria dall’Afghanistan le salme dei soldati sovietici caduti: 200 era il numero massimo di bare di legno, sigillate a loro volta in casse di zinco, trasportabili per ogni viaggio.

Un quadro, quello di Balabanov, che alcuni critici hanno definito come “la quintessenza assoluta della realtà russa dei primi anni Ottanta” e che racconta, in una trama ricca di metafore, l’Unione Sovietica alla vigilia dell’inaspettato crollo. Eppure, come per Ragazzi di zinco, Cargo 200 non è un’opera bellica: le notizie che giungono dal fronte rappresentano infatti il mero contorno di una vicenda di degrado umano che descrive in maniera devastante e tragica un’Unione Sovietica pronta a scomparire, mentre il noto cineasta – come anche Svetlana Aleksievičscava nei recessi più profondi dell’animo umano, raccontandoci duramente l’abisso sociale e morale di una nazione agonizzante.

Il peso della guerra e la dissoluzione dell’URSS

Di questa tragedia quasi sconosciuta, durata il doppio della Seconda guerra mondiale e denunciata fin dall’inizio dal dissidente Andrej Sacharov (che fu, per questa ragione, relegato a Gor’kij nel 1980) non se ne sapeva nulla, se non che i giovani partivano per adempiere al loro dovere internazionalista. Eppure, l’Unione Sovietica è riuscita a mantenere per dieci anni un esercito di un milione di combattenti in Afghanistan per una guerra costata oltre 50mila persone tra morti e feriti e mezzo milione di vittime afghane che hanno subito torture e atrocità simili. 

Ma la verità, quella che tutti ancora oggi cercano, è sempre stata soffocata da una potenza che si stava sgretolando dall’interno. Negli anni ’80, il gigante dai piedi d’argilla era ormai allo stremo: le difficoltà della gestione del conflitto in Afghanistan si sommavano alla crisi economica e politica che il paese stava attraversando. Fu solo sotto la nuova leadership di Michail Gorbačev, il 20 luglio 1987, che l’Unione Sovietica annuncia il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che lasciarono definitivamente il paese il 15 febbraio 1989. Due anni dopo l’Unione Sovietica avrebbe cessato di esistere.

Immagine: Wikipedia

Chi è Claudia Bettiol

Nata lo stesso giorno di Gorbačëv nell'anno della catastrofe di Chernobyl, sono una slavista di formazione. Grande appassionata di architettura sovietica, dopo un anno di studio alla pari ad Astrakhan, un Erasmus a Tartu e un volontariato a Sumy, ho lasciato definitivamente l'Italia per l'Ucraina, dove attualmente abito e lavoro. Collaboro con East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso, occupandomi principalmente di Ucraina e dell'area russofona.

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