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TURCHIA: Fuori dalla Convenzione di Istanbul che difende le donne

La Turchia ha ritirato la propria ratifica alla Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica, adottato dal Consiglio d’Europa nel 2011.

Non è il primo paese a prendere posizione contro la Convenzione, che nell’ultimo anno è stata oggetto di violenti attacchi che rischiano di comprometterne irrimediabilmente l’universalità a livello europeo e il valore simbolico, minandone così l’efficacia. Tra febbraio e maggio del 2020 la Slovacchia e l’Ungheria di Orban hanno rifiutato definitivamente di ratificare la Convezione, denunciandone il carattere a loro avviso ideologico. La scorsa estate la Polonia ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di ritirare la propria ratifica per bocca del ministro della giustizia Zbigniew Ziobro, anche se non sono ancora stati fatti passi formali in tal senso.

Secondo i critici della Convenzione, essa avrebbe come reale scopo non la tutela della donna, ma la diffusione della cosiddetta “ideologia gender“. Infatti l’importanza storica della Convenzione di Istanbul sta anche nel fatto che è stato uno dei primi documenti ufficiali e vincolanti a livello internazionale a fornire una chiara definizione giuridica del “genere”.

A questo si aggiunge il fatto che la Convenzione ha tra i suoi obiettivi proprio quello di andare oltre l’approccio tradizionale che identifica il femminicidio o lo stupro come crimini isolati dal contesto socio-culturale, e di mettere invece in luce gli aspetti strutturali della violenza di genere. Questo approccio è accolto con ostilità dai conservatori in diversi paesi d’Europa, perché a loro avviso nasconderebbe un attacco implicito contro i valori tradizionali e l’istituzione della famiglia. Il presidente polacco Andrzej Duda non poteva essere più esplicito nel dichiarare che l’”ideologia gender” costituisce per la società polacca “un pericolo peggiore del comunismo”.

In questo medesimo contesto va inserito il caso della Turchia. Nell’agosto del 2020 Numan Kurtulmuş – vicesegretario dell’AKP e considerato il punto di riferimento della fazione islamista e ultra-conservatrice del partito – si è espresso pubblicamente contro la Convenzione di Istanbul usando le stesse argomentazioni che erano già emerse in Ungheria e in Polonia. Secondo Kurtulmuş gli obiettivi reali della Convenzione non avrebbero nulla a che vedere con la tutela delle donne, ma sarebbero uno strumento nelle mani delle organizzazioni LGBT per attentare ai valori nazionali e all’istituzione della famiglia. Kurtulmuş ha dunque annunciato la volontà della coalizione di governo di rivedere la propria posizione ed eventualmente ritirarsi dalla Convenzione. 

Le prese di posizione di Kurtulmuş hanno dato il via a un dibattito all’interno della società turca e dello stesso regime che ha diviso i sostenitori della Convenzione di Istanbul dai suoi detrattori. Della prima categoria ha fatto parte anche Sümeyye Erdoğan Bayraktarfiglia del presidente turco e direttrice dell’associazione KADEM per i diritti delle donne – che ha difeso la Convenzione come strumento importante e necessario in un paese che ha statistiche piuttosto negative per quanto riguarda la discriminazione e la violenza di genere. La sua influenza sul padre non è però stata sufficiente a far cambiare le posizioni che si sono consolidate all’interno del mondo conservatore turco.

Proprio all’inizio del mese di marzo del 2021 il governo turco ha presentato un Piano d’azione per i diritti umani che dovrebbe fornire le linee guida per un’attività riformatrice volta a rafforzare il rispetto dei diritti umani nel paese nel prossimo biennio. All’interno di questo grande piano – imponente ma per certi versi fumoso e ambiguo – rientrano anche una serie di provvedimenti volti a tutelare i diritti e la sicurezza delle donne, che da un punto di vista formale potrebbero anche essere accolti positivamente. Se tuttavia si confronta il nuovo progetto con i contenuti della Convenzione di Istanbul, si nota come nel Piano varato dal governo turco la questione della violenza sulle donne torna a essere trattato come una mera questione di criminalità, e sparisce qualsiasi riferimento alla dimensione culturale e strutturale dei rapporti di genere. Per i conservatori turchi, allo stesso modo che nei paesi dell’Europa centrale, il problema con la Convenzione di Istanbul sono soprattutto i riferimenti all’orientamento sessuale e al gender: parola che sembra avere una capacità senza uguali di unire nel medesimo sdegno i conservatori di diversa nazionalità e confessione religiosa. 

Probabilmente il Piano d’azione per i diritti umani voluto da Erdoğan è propedeutico soprattutto a una presa di distanza dalle iniziative del Consiglio d’Europa – come appunto la Convenzione di Istanbul – considerate ideologicamente orientate in modo ostile ai valori del regime. A questi approcci troppo “liberal” il governo turco tenta di contrapporre una propria visione conservatrice e tradizionalista nell’ambito della tutela dei diritti umani. La stretta consequenzialità temporale tra la pubblicazione del Piano del governo turco e l’uscita dalla Convenzione di Istanbul non può essere casuale.

In Turchia si teme che potrebbe presto esserci una stretta repressiva nei confronti delle organizzazioni che rappresentano la minoranza LGBT+, da mesi sotto attacco da parte dei media conservatori e nell’occhio del ciclone perché considerate ideologicamente schierate in senso anti-governativo e vicine alle opposizioni politiche. La paura è che la Turchia possa adottare misure restrittive contro la “propaganda omosessuale”, sul modello di quanto avviene in Russia. Del resto proprio la Russia è – insieme al turcofono Azerbaigian, alleato e cliente della Turchia – l’unico paese del Consiglio d’Europa a non avere mai firmato né ratificato la Convenzione di Istanbul e ad averla da subito denunciata come incompatibile con i valori della propria cultura nazionale. Russia che è sempre più un modello per il regime turco nella gestione del potere all’interno del paese, nella difesa ossessiva dei “valori nazionali”, e ormai anche nel modo di relazionarsi con le istituzioni europee.

Come si è visto, quello turco non è un caso isolato. Tuttavia quanto accaduto in Turchia è di importanza decisamente superiore agli attacchi che la Convenzione di Istanbul ha subito nei paesi dell’Europa centro-orientale come l’Ungheria o la Slovacchia, e non solo per il peso demografico, economico e politico del paese eurasiatico. Innanzitutto vi è una ragione simbolica molto forte, perché non bisogna dimenticare che nel 2011 la Turchia fu il maggior sostenitore e il primo firmatario della Convenzione che prende il nome dalla sua città più grande e importante. Questo rende anche l’idea della progressiva ma radicale trasformazione del regime di Erdoğan nell’ultimo decennio.

In secondo luogo, la Turchia è tecnicamente il primo stato ad abbandonare la Convenzione dopo la ratifica, dal momento che Slovacchia e Ungheria non l’avevano mai ratificata. Verosimilmente la Turchia non sarà l’unica nazione a farlo e il suo esempio sarà con ogni probabilità seguito dalla Polonia nei prossimi mesi. A quel punto sarà necessario vedere come andranno a stabilizzarsi nel prossimo futuro i rapporti di forza tra progressisti e conservatori in altri paesi europei, soprattutto nell’area centro-orientale. Si può in ogni caso dire che oggi la Convenzione di Istanbul ha subito un’ulteriore ferita simbolica durissima e difficilmente rimarginabile.

Foto: Pixabay

Chi è Carlo Pallard

Carlo Pallard è uno storico del pensiero politico. Nato a Torino il 30 aprile del 1988, nel 2014 ha ottenuto la laurea magistrale in storia presso l'Università della città natale. Le sue principali aree di interesse sono la Turchia, l'Europa orientale e l'Asia centrale. Nell’anno accademico 2016-2017 è stato titolare della borsa di studio «Manon Michels Einaudi» presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Attualmente è dottorando di ricerca in Mutamento Sociale e Politico presso l'Università degli Studi di Torino. Oltre all’italiano, conosce l’inglese e il turco.

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