Nella tarda serata di ieri il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, hanno firmato un accordo di pace per mettere fine alla guerra in Nagorno-Karabakh in corso dal 27 settembre.
Cronache di guerra dal Nagorno-Karabakh. Tutti i nostri articoli
L’accordo è stato mediato dal presidente russo, Vladimir Putin, e stabilisce che a partire dalla mezzanotte (di ieri 9 novembre) le forze armene e azere cessino le ostilità e si assestino sulle loro posizioni.
Il documento è stato pubblicato dal sito ufficiale del Cremlino e impone a Erevan le tempistiche del ritiro da alcuni dei territori azeri intorno alla regione del Nagorno-Karabakh (così come demarcata in epoca sovietica) sotto il suo controllo.
Entro il 15 novembre, Erevan dovrà cedere la regione di Kelbajar (a nord-ovest del Nagorno-Karabakh), entro il 20 novembre quella di Aghdam (ad est). Il 1 dicembre, infine, sarà il turno del distretto di Lachin (la striscia di terreno che si frappone tra Armenia e Nagorno-Karabakh), con l’unica l’eccezione di un corridoio di trasporto largo 5 chilometri attraverso Lachin per consentire i collegamenti con l’Armenia. Da notare, in primo luogo, che la città di Shusha/Shushi, pur trovandosi fisicamente nel corridoio è stata esclusa dall’accordo, essendo già sotto il controllo azero da ieri. In secondo luogo, il ritiro armeno dal distretto di Gazagh (a nord del Karabakh) entro il 20 novembre era menzionato nella versione del documento pubblicata nella notte dalla stampa russa, ma non in quella ufficiale.
In base all’accordo, una forza di quasi 2000 peacekeeper russi armati verrà dislocata sulla linea di contatto tra gli eserciti armeno e azero e nel corridoio di Lachin per verificare l’applicazione delle sue clausole. Il mandato dei peacekeeper è di cinque anni, con un estensione automatica, se una delle due parti non chiede il ritiro delle forze russe prima di sei mesi dalla fine del termine del mandato.
Lo status del Nagorno-Karabakh non è stato definito nel documento, ma è previsto che l’ONU monitori il rientro nella regione degli “sfollati interni e dei rifugiati“, una formula che include sia gli azeri fuggiti dal Nagorno-Karabakh in Azerbagian durante la guerra negli anni ’90 che gli armeni che si sono rifugiati in Armenia a partire dal 27 settembre.
La clausola finale dell’accordo prevede che tutti i corridoi economici e di trasporto nella regione vengano sbloccati e che l’Armenia conceda un corridoio di trasporto “per permettere il movimento, senza impedimenti, di mezzi, persone e beni tra l’Azerbaigian e il Nachicevan” – l’exclave azera separata dal resto della nazione dal territorio armeno. Anche questa clausola verrà monitorata dai peacekeeper russi.
Le reazioni
L’accordo ha scatenato reazioni diametralmente opposte in Armenia e Azerbaigian. I cittadini di Baku sono scesi in strada, per la seconda vola in pochi giorni, a festeggiare quella che è a tutti gli effetti una capitolazione armena.
A Erevan, invece, la tensione è altissima, per il paese è un momento difficilissimo. Nella giornata di ieri un gruppo di 17 partiti aveva chiesto le dimissioni di Pashinyan. Nella notte, dopo che il premier ha annunciato l’accordo in un post su Facebook, descrivendolo come “incredibilmente doloroso per me e per la mia gente, ma necessario”, una folla inferocita ha fatto irruzione nei palazzi delle istituzioni e nella residenza del primo ministro che però non era presente. Nel frattempo, il presidente del parlamento, Ararat Mirzoyan, è stato picchiato da un gruppo di manifestanti. Le sue condizioni di salute al momento non sono note.
Il peggiore incubo per l’Armenia è diventato una realtà. Aliyev ha chiaramente fatto capire che non farà sconti, dichiarando che l’accordo non contiene “neanche una singola parola sullo status del Karabakh”. “Gli abbiamo offerto autonomia e l’hanno rifiutata. Dov’è il vostro status? Non c’è nessuno status e non ci sarà mai più”.
Immagine: Manifestanti nel parlamento armeno (Reuters)