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KOSOVO: L’UÇK era un esercito criminale?

Le recenti vicende di cronaca, che hanno visto l’attuale presidente del Kosovo, Hashim Thaçi, rinviato a giudizio per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della corte speciale per i crimini commessi in Kosovo tra il 1998 e il 2000, hanno riportato all’attenzione pubblica la controversa questione della lotta d’indipendenza kosovara. Una lotta che, pur legittima, si è avvalsa di metodi criminali, finanziandosi attraverso attività illecite e guidata da capi mafiosi locali.

Premessa storica

Alla fine degli anni Novanta la questione del Kosovo era giunta a un punto di non ritorno. Unica provincia albanese dell’ex-Jugoslavia, aveva ottenuto una parziale autonomia nel 1974 per poi vedersela revocare nel 1989 da Slobodan Milošević, aprendo così una stagione di discriminazioni ai danni del gruppo etnico albanese, maggioritario nella provincia. L’UÇK, esercito di liberazione del Kosovo, fece la propria comparsa nel 1997 in reazione all’inconcludente politica pacifista promossa dall’allora leader kosovaro Ibrahim Rugova.

Un movimento spontaneo

L’UÇK nasce e sviluppa in modo disomogeneo, come una congerie di gruppi guidati da autoproclamati leader locali, attorniati da una cerchia di fedelissimi legati tra loro da vincoli familiari. Alberto Pasquero, docente associato all’Università di Milano, sottolinea come la genesi spontanea e diseguale dell’UÇK ne abbia determinato la profonda debolezza militare, mancando di fatto l’obiettivo di costruire una catena di comando unificata e identificabile in grado di impartire ordini a livello centrale su tutto il territorio.

Anche per questo l’esercito kosovaro si limitò a una serie di azioni di sabotaggio che, se da un lato ebbero il merito di ingabbiare Milošević nella loro strategia di guerriglia, dall’altro mostrarono la disparità con un esercito moderno ed equipaggiato come quello serbo, forte anche dell’apparato jugoslavo che aveva ereditato. Provocando la reazione di Belgrado, che si abbandonò a sanguinose ritorsioni, l’UÇK seppe tuttavia indurre l’Occidente, colpevolmente inerte di fronte al macello bosniaco, all’intervento militare che culminò nei settantotto giorni di bombardamento Nato su Belgrado.

I clan criminali e l’UÇK

L’organizzazione familiare e territoriale dell’UÇK ricalcava quella dei fis, estesi clan i cui membri erano legati da vincoli di sangue, radicati in una precisa area geografica. Parte di questi clan erano coinvolti, fin dai tempi della Jugoslavia, nel traffico internazionale di stupefacenti.

Ricorda ancora Pasquero Circa l’80% dei derivati degli oppiacei, coltivati in Pakistan e Afghanistan e destinati alle principali piazze europee, passava dalle mani dei clan kosovari – i quali erano i veri gestori della cosiddetta ‘rotta balcanica’ – sviluppando un giro di circa 500 miliardi di dollari l’anno. Evidenze di queste attività criminali si riscontrano nelle molte indagini condotte negli anni sia dalla magistratura italiana, sia dall’UNODC, l’ufficio Onu per in contrasto al narcotraffico e al crimine organizzato. Ancora nel 2015, l’UNODC, in Drug Money: the illicit proceeds of opiates trafficked on the Balkan route, segnalava il ruolo centrale del Kosovo nel narcotraffico.  Ancora oggi il paese è il principale snodo per il traffico di eroina.

L’UÇK si avvalse, fin dai primi momenti del proprio sviluppo, di questa rete criminale. I leader dei clan criminali divennero, al contempo, leader militari locali, dando all’esercito di liberazione kosovaro quella forma disomogenea e localistica di cui si è detto poc’anzi. I flussi di denaro e di armi gestiti dalla criminalità divennero le casse e l’arsenale dell’UÇK. Il Congresso americano, che aveva inserito l’esercito di liberazione albanese tra i “gruppi terroristici internazionali”, produsse nel 2000 uno studio in cui evidenziava le responsabilità dell’UÇK nel traffico di droga.

Il fatto che l’UÇK finanziasse le proprie attività di guerriglia con il narcotraffico ed altri commerci illeciti era dunque un’informazione di pubblico dominio, specialmente in ambito statunitense. Questo, tuttavia, non impedirà alla Casa Bianca di appoggiare l’esercito kosovaro, ritenuto partner scomodo ma indispensabile nella guerra contro Milosevic.

Guerra intestina

I proventi delle attività criminali, tuttavia, vennero largamente utilizzati non tanto per combattere contro i serbi, quanto per far piazza pulita dei nemici interni rappresentati dai sostenitori di Ibrahim Rugova o dai – veri o presunti – collaborazionisti.

In merito ai nemici interni, la pratica di liquidarli è proseguita anche dopo la guerra. Il celebre rapporto del senatore svizzero Dick Marty  per l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su “trattamenti disumani e i traffici illeciti di organi in Kosovo” (che prende le mosse dalle affermazioni di un altro ex magistrato ticinese, Carla Del Ponte, che nelle sue memorie – pubblicate nell’aprile del 2008 – rivelava di aver avuto notizia di presunti traffici d’organi espiantati dai guerriglieri dell’UÇK ai prigionieri, serbi e albanesi collaborazionisti) denuncia anche “omicidi, detenzioni, maltrattamenti e interrogatori” compiuti da ufficiali dell’UÇK ai danni di altri kosovari ritenuti “traditori” perché fedeli a Rugova e al suo partito. Tra questi ufficiali, proprio l’attuale presidente Hashim Thaçi, oggi chiamato a rispondere di quelle accuse. Benché la gran parte dei reati evidenziati dal rapporto Marty sia avvenuta dopo la guerra, essi confermano la natura criminale di parte dei leader dell’esercito di liberazione kosovaro.

Peccato originale

Anche nel caso in cui le accuse contro Thaçi dovessero cadere, come sono cadute quelle contro un altro celeberrimo e famigerato criminale kosovaro, Rasmush Haradinaj, resta il peccato originale dell’UÇK a gettare un’ombra su tutta la vicenda della liberazione del Kosovo. E il peccato originale, è il narcotraffico unitamente a quello di esseri umani, in prevalenza donne destinate alla prostituzione nei Balcani e in altri paesi d’Europa. Attività così evidenti che – spiega ancora Pasquero – “uno degli obiettivi primari” della costruzione dello stato kosovaro era “indubbiamente arginare i traffici illeciti che proliferavano sul territorio ed avevano profonde ricadute negative anche sui paesi europei di destinazione (droga, armi, tratta di esseri umani)”.

Alla luce delle numerose attività criminali condotte, l’UÇK non è un movimento di resistenza assimilabile, per esempio, a quelli che si opposero al nazifascismo, perché se legittima era la difesa, non altrettanto lo sono stati i metodi con cui la si è condotta.

Tuttavia, appare oggi ormai pretestuoso e sciocco metterne in discussione l’indipendenza facendo leva proprio sui crimini commessi, come avviene nei settori nazionalisti serbi. Ma se l’indipendenza del Kosovo non è un fatto discutibile, molto si può e si deve dire su come a quell’indipendenza si è giunti così da non accrescere il numero di criminali che troppo spesso nei Balcani vengono chiamati eroi. Il Kosovo potrà smettere di essere il buco nero d’Europa quando avrà fatto i conti con il proprio recente passato, e i vecchi leader targati UÇK saranno sostituiti da una nuova e più responsabile classe dirigente.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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