Lo zoo berlinese di Šklovskij

di Gabriele Merlini

Tornare a leggere (e tendenzialmente ad apprezzare) Šklovskij è intento quantomai costruttivo per molti motivi: tra i tanti spicca il dare una bella sportellata ad alcune delle tendenze radicate più in profondità nella editoria contemporanea, che possono essere riassunte brevemente come segue: predilezione per i malloppi (il suo Zoo o lettere non d’amore è libretto agile e snello). Strapotere del plot, trama intesa come elemento imprescindibile per la valutazione di una opera (Zoo o lettere non d’amore ha un plot quantomai labile, traendo la propria forza da tutt’altro). Facile collocazione di un testo in una predefinita nicchia di mercato (Zoo o lettere non d’amore può finire senza problemi negli scaffali delle guide turistiche, di saggistica, narrativa, libri di cucina oppure libri da colorare. Cosicché l’acquirente si confonda e scelga la via della fuga tutto spaesato). Però esistono anche ragioni meno distruttive per amare Šklovskij. Particolare non trascurabile il dato che ogni frase di Zoo o lettere non d’amore sappia suonare come una sentenza di notevole spessore poetico -per quello che significa- nonché un funzionale tramite per provare a contestualizzare al meglio i tempi e lo spazio della narrazione, periodo essenziale del novecento.

«Di che scrivere? Tutta la mia vita è una lettera a te. Gli incontri sono sempre più rari. Quante parole semplici non ho capito. […] Sull’amore non si può scrivere. Scriverò su Zinovij Gržebin, editore. Un argomento abbastanza lontano, mi pare.»

Inizialmente reperibile in Italia nella forma primaria di un Einaudi uscito durante il paleolitico medio (1961) dei libri, quindi di non facile fruizione, Zoo è stato ristampato da Sellerio nel 2002. Proprio dalla scheda selleriana rubiamo l’accenno di trama: «Berlino 1923. Una donna rivolge a un uomo innamorato il rimprovero più doloroso: il tuo amore è grande ma non è gioioso, e gli vieta di scriverle d’amore. L’uomo allora comincia a scriverle lettere non d’amore. Questa finzione è il nucleo di Zoo [e] da essa si sviluppa un ininterrotto divagare e vagheggiare intorno a un esilio berlinese, un serraglio di giovani e meno giovani che non sopportano la lontananza dalla patria russa» etc.

Testo complesso e sconnesso al quale corrispondono le geometrie complesse e sconnesse della copertina originaria nella quale è riprodotta la Fuga delle forme (qui) di Ivan Puni, avanguardista russo dal ciuffo ribelle e sguardo magnetico (qui). Dicotomia russo-tedesca che è parte integrante sia della vita dell’autore che della narrazione rapportandosi il libro (o meglio, ronzando attorno il libro: l’abbiamo già specificato) alla comunità russa di stanza nella capitale tedesca nel periodo tra le due guerre. Ventitré lettere di un giovane che si fanno riflessioni sullo scrivere, sull’amore, sulla storia, sull’amicizia, sulla modernità, sui cappelli, sulle scimmie e sulla politica in un contesto (in un «vortice», per continuare ad aggrapparci ai cliché più polverosi del settore) che racchiude gran parte della cara-vecchia-mitteleuropa, riportando a galla persino numerosissime suggestioni praghesi/boeme: pezzi forti dell’area tipo vita/morte e donne portatrici di infinito dolore.

«Le sei del mattino. Fuori, sulla Kaiserallee è ancora buio. Ti si può telefonare alle dieci e mezzo. Quattro ore e mezzo e poi ancora venti ore vuote. E tra di esse la tua voce.»

Se qualcuno si trovasse a spulciare sul Wikipedia di Šklovskij potrebbe scoprire che Šklovskij fu legato al formalismo russo e le avanguardie futuriste; come il buon Propp anche Šklovskij analizza qui il reale ponendogli griglie che si ripetono e si ripetono e concedono alla intera la narrazione l’alone della fiaba. Come parecchi futuristi anche Šklovskij si direbbe piuttosto tendente al raccogliere il tutto e scomporlo in pezzettini, agitarlo e mescolarlo bene prima di ributtarlo su carta. Sorvolare il reale ma tenendolo sempre bene d’occhio e con la consapevolezza di quanto scriverne sia una modalità piuttosto funzionale per metterlo buono, calmarlo, gestirlo. Una comunità di artisti in esilio con un debole per l’astrazione ma con i piedi piantati nella contemporaneità. Delusi dalla rivoluzione ma incapaci di vivere senza di essa: lo zoo può essere un punto d’osservazione comodo però inevitabilmente limita.
«Non posso vivere a Berlino. Per il modo di vita, per tutte le abitudini io sono legato alla Russia di oggi. So lavorare solo per essa. È sbagliato che io viva a Berlino. La rivoluzione mi ha rigenerato, senza di essa mi manca l’aria. Qui si può soffocare» viene ammesso attorno alla fine. È l’ultima lettera, la ventitreesima. Contiene la richiesta del permesso per tornare in Russia dalla Germania. Percorrendo così ancora una volta quella fetta di Europa sopra la quale, assieme ad un cumulo di tragedie, anche spunti per una narrativa ricchissima sono stati accatastati nei secoli e dei quali Zoo rappresenta uno tra gli esemplari più sorprendenti. Forse meno celebrati, più polverosi e in ombra, ma per questo intimi e preziosissimi.

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