L’influenza spagnola in Europa orientale: racconti da Bulgaria, Romania e Polonia

La recente pandemia di Covid-19 ha stravolto le nostre vite e gettato i governi d’Europa (e non solo) nel caos. Come spesso accade in momenti di smarrimento, abbiamo cercato appigli e riferimenti nel passato; non tanto per imparare e trarre moniti, dal momento che l’unica legge della storia è il non aver mai insegnato niente a nessuno, ma più per vedere come i nostri antenati si sono rapportati a fenomeni così simili e imperscrutabili.

Molto si è parlato nelle ultime settimane della terribile influenza spagnola, che ha falcidiato il mondo tra il 1918 e il 1920, provocando più morti della prima guerra mondiale. L’Europa orientale non ne fu immune: il virus arrivò anche ad est, provocando un numero altissimo di vittime. Ciononostante, la spagnola è quasi del tutto assente dai resoconti storiografici dedicati a quegli anni; perché una malattia così mortifera e devastante sembra caduta totalmente nell’oblio della storia, rimossa non solo dalla letteratura scientifica ma anche dalla memoria collettiva? Come sempre in storiografia, le motivazioni sono molteplici, di ordine pratico, simbolico e politico.

Le ragioni dell’oblio

Nel 1918 la guerra finì soltanto in Occidente: ad est si combatté ancora, a fasi alterne, fino ai primi anni ’20. Le truppe romene invasero Budapest nell’estate del 1919, Grecia e Turchia si fronteggiarono in una guerra che si concluse soltanto con un immane scambio di popolazioni nel 1922, la Russia era in preda ad una sanguinosa guerra civile cui seguì un drammatico conflitto con la Polonia.

Ciò significa che la censura militare rimase in vigore ben oltre il 1918, impedendo di conoscere il numero reale dei contagiati e l’esatto tasso di mortalità, che fu presumibilmente alto, aggravato dalla denutrizione e la stanchezza delle truppe; difficilmente nel computo complessivo dei deceduti venne fatta una distinzione chiara tra morti di spagnola e morti per cause belliche (che oggi verrebbero chiamati “pazienti con patologie pregresse”).

Il virus, tuttavia, non si fermò al fronte, ma giunse anche nelle città. Eppure, la storiografia ne fa raramente menzione. Anni di guerra violentissima e de-umanizzante avevano portato ad un diverso rapporto con la morte: Eugenia Tognotti, docente di storia della medicina, ha giustamente sottolineato che uno degli effetti della guerra fu una svalutazione del lutto privato a scapito di quello collettivo: le morti “sacre” in nome della patria vennero a posteriori valutate molto di più di quelle ben più prosaiche consumatesi tra le mura domestiche a causa dell’influenza. Questo è vero per tutta Europa, ma ancor di più per gli stati dell’Europa orientale che dalla guerra trassero la definitiva legittimazione della loro esistenza.

Per molti paesi, infatti, il 1918 rappresentò il glorioso anno di nascita (Cecoslovacchia, Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), di rinascita (Polonia), di fondazione su nuove basi territoriali (Romania). La vittoria nel conflitto, e i successivi trattati di pace che ne legalizzarono l’esito, costituiscono ancora oggi l’atto fondativo della nazione, un mito collettivo, il segno di un passato glorioso che, per i vincitori, oscura tutto il resto. Per gli sconfitti (Ungheria, Bulgaria) il virus è soltanto un dettaglio poco influente all’interno di un quadro fatto di povertà, sommovimenti sociali, orgogli nazionali feriti.

Gli storici dell’Europa orientale per decenni hanno avuto come oggetto unico di analisi le vicende politico-militari della loro nazione: lo studio di eventi naturali, come una pandemia, raramente è entrato nelle loro trattazioni. Affrontare la spagnola significava inoltre raccontare la debolezza, l’impreparazione, e il sottosviluppo dei loro stati proprio negli stessi anni in cui ne venivano esaltate la nascita e le prospettive future.

I contadini romeni si curano con aglio e grappa

Le tracce del passaggio del virus ad est esistono, ma non sono del tutto edificanti. Un articolo apparso nel 1927 sul quotidiano Libertatea riporta una lettera scritta da un contadino o una contadina romena proprio durante i giorni del picco dell’epidemia:

Sentiamo e leggiamo che l’influenza spagnola uccide gli uomini. Da noi gli uomini non si lasciano sopraffare, e la combattono con l’aglio e la grappa. Credo che i cibi a base di aglio facciano bene, e che il peperoncino abbia delle proprietà, come dicono i dottori, antisettiche, cioè che uccide i microbi (dei germi piccoli che non si vedono). Ancora la grappa non l’ho provata, ma credo che anche quella sia utile. Nella nostra valle non esiste casa dove non ci si sia ammalati di spagnola, ma dopo alcuni giorni di sofferenza, tutti sono guariti. Non lo so, è stato l’aglio a uccidere la malattia, o la grappa. I dottori non lo sanno, voi che pensate?

Nel 1918 non esisteva in Romania un ministero della Salute (che verrà fondato soltanto nel 1923), né una struttura statale centralizzata che si occupasse dello sviluppo complessivo del sistema sanitario. I contadini delle campagne erano abbandonati a loro stessi, spesso costretti a cercare delle soluzioni rudimentali ai loro problemi di salute. Dopo la guerra vennero avviati dei progetti di ammodernamento delle strutture ospedaliere, che dovevano simboleggiare l’ormai irreversibile modernizzazione del paese, ma la maggior parte delle risorse venne indirizzata agli ospedali della capitale e delle città; poco si spese nella sensibilizzazione delle masse rurali alle basilari misure di igiene.

La quarantena importata dai medici russi in Bulgaria

Anche la Bulgaria si trovò del tutto impreparata di fronte alla pandemia. Il sistema sanitario era ancora a dir poco rudimentale, e neanche lì esisteva una struttura statale centralizzata che controllasse gli ospedali e la formazione dei futuri professionisti del settore; basti pensare che la facoltà di medicina dell’università di Sofia venne fondata soltanto nel 1917.

Durante il conflitto il paese era stato afflitto da varie epidemie di colera, i cui effetti vennero involontariamente arginati dal massiccio consumo di pane ammuffito (ricco di penicillina), l’unico disponibile in tempi di guerra. La spagnola ebbe effetti più devastanti: i morti furono più di 80.000, all’epoca il 2% della popolazione dell’intero paese.

Avrebbero potuto essere molti di più, se un gruppo di medici russi in fuga dalla guerra civile e dal bolscevismo non avesse fatto presente ai bulgari che l’unica efficace misura di contenimento contro la diffusione del virus era la quarantena. Anche lo zar Ferdinando si ammalò di spagnola, proprio nei drammatici giorni della sua abdicazione in favore del figlio Boris. La Berliner Tageblat del 7 ottobre 1918 lo riporta ancora ammalato, in Austria, sulla strada del ritorno verso la Germania. Ferdinando guarì e morì in esilio trent’anni dopo.

La morìa nelle città in Polonia

Anche in Polonia, un paese ben più avanzato dal punto di vista sanitario, e con un tessuto socio-politico più vivace rispetto ai due casi già citati, gli effetti dell’influenza furono drammatici. Cracovia venne fortemente colpita a causa dell’eccessiva densità abitativa e della scarsissima igiene delle sue strade. Discorso simile a Leopoli (Lwów), dove il numero eccessivo di morti causò presto una carenza di bare, che lasciò i morti insepolti per diversi giorni. La situazione nelle campagne non doveva essere troppo dissimile da quella romena: i contadini vennero abbandonati a loro stessi, uccisi non solo dalla spagnola, ma anche da altre epidemie di tifo e colera.

Il contesto scientifico polacco era ben più sviluppato di quello bulgaro; vennero pubblicati numerosi studi che cercavano di indagare le origini della pandemia, che però rappresentarono sempre un enorme punto di domanda. A Varsavia sapevano già che l’unico metodo di contenere il contagio era l’isolamento degli infetti. Tuttavia, le cure da applicare restavano oggetto di aspra discussione. Secondo alcuni virologi, il metodo migliore era operare dei frequenti risciacqui di naso e bocca col disinfettante.

L’epidemia cancellata dalla memoria collettiva

Non si vuole qui stigmatizzare eccessivamente l’incertezza e i dubbi con cui medici e cittadini dell’est europeo si approcciarono al virus. In molte zone dell’Europa occidentale la situazione non fu dissimile. Si vuole sottolineare ed evidenziare la totale mancanza, nella pubblicistica accademica e nella memoria collettiva, di un evento dagli effetti disastrosi in tutta la regione. Un’assenza non dovuta alla mancanza di fonti, ma ad una scuola di pensiero storiografica che ha fatto della sfera politico-militare la sua preoccupazione principale.

Chi è Francesco Magno

Ha conseguito un dottorato di ricerca in storia dell'Europa orientale presso l'università di Trento. E' stato assegnista di ricerca presso la medesima università. Attualmente insegna storia dell'Europa orientale presso l'università di Messina. Si occupa principalmente di storia del sud-est europeo, con un focus specifico su Romania, Moldavia e Bulgaria.

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