C’è una foto che più di altre simboleggia Sarajevo durante la seconda guerra mondiale. E’ la foto di una donna musulmana, con il velo nero, che passeggia a braccetto con una donna ebrea, e nasconde con il braccio la sua stella gialla. Quelle due donne sono Zejneba Hardaga e la moglie di Josef Kabilio.
Quella degli Hardaga e dei Kavilio è una storia in due atti, di due famiglie di ebrei e musulmani che si sono salvati a vicenda nel corso del novecento. Entrambi gli episodi si svolgono a Sarajevo, a quasi mezzo secolo di distanza.
Sarajevo, 1941-1945
Nell’aprile del 1941 la Germania nazista e l’Italia fascista invadono la Jugoslavia. Sarajevo è bombardata, la sinagoga è distrutta e gli ebrei vengono rastrellati e inviati ai campi di concentramento nella Croazia degli ustascia. La famiglia di Josef Kavilio – ebrei sarajevesi – deve abbandonare la casa distrutta. Viene in loro soccorso Mustafa Hardaga, suo socio d’affari prima della guerra, sua moglie Zejneba Sadik, e i cognati Izet and Bahrija Hardaga. La famiglia Hardaga, che vive di fronte al quartier generale della Gestapo, decide di ospitare e nascondere i Kavilio. “Ci hanno accolto con le parole ‘Josef, tu sei nostro fratello e i tuoi figli sono nostri figli. Fate come se foste a casa vostra’”, ricorderà Josef. Come segno di acquisita familiarità, le donne della famiglia Hardaga non porteranno il velo di fronte a lui.
Ma il clima a Sarajevo durante l’occupazione non è facile. Di giorno gli Hardaga possono leggere per strada i manifesti che avvertono che chiunque nasconda ebrei e comunisti sarà fucilato, e di notte possono ascoltare le grida dei torturati nelle celle della Gestapo. Entro l’inverno Josef riesce ad esfiltrare moglie e figli a Mostar, città sotto controllo italiano considerata più al sicuro, mentre lui resta in città per liquidare gli affari. Ma viene arrestato dalla Gestapo ed è in lista per il trasferimento al campo di Jasenovac, dove gli ustascia croati si occupano dello sterminio di serbi, rom, ebrei e omosessuali. La neve fitta, tuttavia, impedisce il trasferimento. I prigioneri, con i piedi in catene, sono usati per ripulire le strade dalla neve. Lì Zejneba ritrova l’amico di famiglia, e nonostante il pericolo riesce a portare cibo ai prigionieri. Josef Kavilio riesce a fuggire e a ritornare dagli Hardaga, dove resta fino a rimettersi in salute, nonostante il pericolo incombente delle retate della Gestapo. Quindi anche lui raggiunge Mostar.
Dopo il settembre 1943, con l’occupazione tedesca che si estende fino alla costa, i Kavilio si danno alla macchia e si uniscono ai partigiani sulle montagne, per tornare poi a Sarajevo, dove ritrovano gli Hardaga, da cui recuperano i gioielli di famiglia che avevano nascosto durante la guerra. Scoprono allora che il padre di Zejneba, Ahmed Sadik, è stato arrestato e ucciso anche lui a Jasenovac.
“Era l’inizio del 1942 – racconta Zejneba – e nostro padre Ahmed incontrò Isidor Papo, con la moglie e i due figli alla stazione di Konitsa, diretti da Dubrovnik a Sarajevo. ‘Non potete tornare a Sarajevo’, disse loro, ‘tutti gli ebrei sono stati mandati ai campi”. I Papo non sapevano più cosa fare. Mio padre li portò con sè, fabbricò loro documenti falsi e li fece passare nell’area di occupazione italiana. I Papo si salvarono. Lui no – fu denunciato e caricato su uno degli ultimi trasporti per Jasenovac. Il suo nome è sul monumento alle vittime del campo”.
I Kavilio emigrano verso Israele dopo la guerra. Nel 1984 chiedono allo Yad Vashem che la famiglia Hardaga e Ahmed Sadik siano riconosciuti come Giusti tra le Nazioni – primi musulmani a ricevere tale riconoscimento. Un anno dopo, Zejneba Hardaga è a Gerusalemme, a piantare un albero con il nome della sua famiglia.
Sarajevo, 1992-1995
Nella prima estate del 1992 Aida Susic, suo marito Branimir Pecanac, la loro figlia Stela di dieci anni e la nonna Zejneba, ormai malata, sono svegliati dalle granate che cadono sopra Sarajevo. “Una granata aveva colpito casa nostra nel cuore della notte, distruggendo tutto. Per i successivi sei mesi ci siamo rintanate nella cantina, aspettando di morire“.
A Gerusalemme, i Kavilio guardano le notizie dalla televisione con il cuore in gola, ricordando le storie di famiglia sulla loro fuga dalla Shoah grazie alla famiglia Hardaga. Tramite un giornalista israeliano che copriva il conflitto bosniaco, riescono a contattare le organizzazioni ebraiche di Sarajevo e a sapere che Zejneba e la sua famiglia sono ancora vivi. I Kavilio si sbracciano per fare avere a Zejneba le necessarie medicine e portare in salvo tutta la famiglia. Per tutto il dicembre 1992, gli impiegati della Yad Vashem fanno squillare i telefoni del ministero perché organizzi un’operazione di soccorso, fino ad arrivare allo stesso primo ministro Yitzhak Rabin.
Il 5 febbraio 1993, la famiglia di Zejneba Hardaga monta su un convoglio organizzato dalle agenzie umanitarie ebraiche, che li porta fuori dalla città sotto assedio e, attraverso la Croazia, fino in Israele, dove Zejneba riceve la cittadinanza, per morire poi nell’ottobre dello stesso anno. Prima dell’ora finale, Aida le confida che intende convertirsi all’ebraismo con tutta la famiglia. “Se vuoi fare qualcosa non parlarne, fallo”, la benedice l’anziana madre.
Oggi Sarah, Moshe e Ruth Pechanec vivono a Gerusalemme. Sarah lavora allo Yad Vashem, dove un’esibizione racconta la storia della sua famiglia, e dove cresce l’albero piantato da sua madre in onore del coraggio e dell’umanità. La storia di sua madre è raccontata nel documentario del 2007, The woman from Sarajevo.