Georgi Gospodinov

LIBRI VOLAND: La Resistenza del partigiano sloveno condannato dai comunisti

Minuetto per chitarra (a venticinque colpi) di Vitomil Zupan

Tradotto e curato da Patrizia Raveggi

Voland edizioni

pp.528

Euro 20

Pugile, istruttore di sci, fuochista su navi inglesi, imbianchino, internato nel campo di concentramento di Gonars, partigiano, poi carcerato per sette anni dopo un processo farsa, girovago e soprattutto scrittore, poeta, drammaturgo: dalla penna di Vitomil Zupan (1914-1987), una delle  figure più importanti, e leggendarie, del Novecento sloveno, ma anche una delle più controverse, irriverenti e scomode per qualsiasi partito, di qualsiasi colore, non poteva che uscire un personaggio memorabile, suo alter-ego eppure da lui ben distinto, sempre al limite, un emarginato, schietto, ironico e irresistibilmente attratto dall’odore della gonna.

Da poco uscito per i tipi di Voland, nella traduzione di Patrizia Raveggi, Minuetto per chitarra (a venticinque colpi) è il racconto della Resistenza partigiana slovena, in particolare degli eventi dell’autunno e inverno del 1943, conservato nella memoria dell’autore per anni e pubblicato solo nel 1975: i ricordi e gli scritti in prima persona dell’atipico partigiano Berk vengono ritrovati da un anonimo trascrittore, che si cimenta nel riordinare e dare un senso al materiale ritrovato.

“Lascia che il tempo echeggi dentro di te”

Le vicende del protagonista si svolgono su due piani temporali diversi. Un continuo salto di prospettiva dagli anni della guerra agli anni ’70, dai monti boscosi della Slovenia alla vacanza sulla riviera spagnola di Maiorca, dove avviene l’incontro con Joseph Bitter, un ex ufficiale tedesco, passato per la Jugoslavia per ben due volte. Senza rivelargli la sua identità quasi fino alla fine, Berk inizia con il nemico di un tempo un confronto, l’umano tentativo di capire la guerra, l’uomo, lo sfumato confine tra bene e male, attraverso i frantumi di memoria che restano a un soldato a contatto con la devastazione e la morte. Un’indagine del trauma, attraverso i ricordi, le ossessioni, la presenza viva dei fantasmi che l’io ospita, grazie a parole che continuamente riaprono la stessa ferita che vogliono rimarginare. Un flusso continuo di parole, carsico, delinea una geografia mentale fatta di curve, ritorni, vuoti; momenti lirici e riflessivi lasciano il posto alla lingua spezzata, a singulti, dei campi di battaglia, lo smarrimento e il caos del reale vengono colti da uno stile audace e trasgressivo, sapientemente modulato. Citazioni, aforismi, versi di canzoni e poesie, slovene e non, compongono un intreccio complesso, irradiano il tessuto narrativo, creando una cassa di risonanza in cui storia e ricordi che si hanno di essa si aprono ad un piano universale.

Una guerra di antieroi

Lontano dal realismo socialista che dettava legge nell’Europa sovietica, controcorrente rispetto agli immancabili eroi positivi che lottano per un felice avvenire, Zupan scrive un romanzo (o anti-romanzo) di un raro realismo, sui modelli di Hemingway, Céline o Henry Miller. Al momento della pubblicazione fu da molti dichiarato amorale e negativo verso la lotta partigiana: emerge l’immagine della guerra come di un evento assurdo. “Quel che conta è il cammino, non la meta, la meta si sposta come il sole al tramonto”, sono i pensieri di questo rivoluzionario deluso. Il sole dell’avvenire si offusca qui nell’ombra dei boschi, nella pioggia di proiettili, nelle ferite purulente. Berk emana un odore di carne in putrefazione, contagia col prurito dei suoi pidocchi, scandalizza il pubblico benpensante per le sue pulsioni prorompenti e i suoi racconti densi di erotismo. Contro una resistenza “agiografica ed edulcorata”, come direbbe Calvino, Zupan contrappone fango, fame, vesciche, un individuo “senza importanza collettiva”, privo di credo politico, che lotta senza sapere bene perché. Profondamente umano nelle sue domande, nei suoi tentativi di riconciliazione con la storia, nella sua spinta al riscatto.

Es lo mismo, es lo mismo, Señor

Che Caino abbia ucciso Abele, o il contrario, non fa differenza: “Nessuna pianta, nessun animale, nessun oggetto, nessuna pietra – non è né colpevole né innocente, noi invece siamo colpevoli o innocenti due volte; davanti agli altri e davanti a noi medesimi ed è molto raro che le due cose coincidano. C’è qualcosa di colossale che non va bene, qualcosa di fatale. Ognuno di noi tira a indovinare – nessuno sa”. Munito ognuno del suo credo, ognuno lotta per qualcosa, ma da una parte o dall’altra della linea “la fatica è la stessa” e i motivi ultimi di qualsiasi guerra sono impenetrabili. Il soggettivismo della narrazione, dallo spettro del vissuto di Berk al filtro prospettico di Bitter, al distanziamento temporale e alla matura “visione spagnola” dello stesso volontario del Fronte di Liberazione, problematizzano la questione, tuttavia la risposta non arriva: la guerra è, in ultima istanza, un evento indicibile. Vissuta come un sogno e come tale percepita dopo, ce la si porta sempre dentro. Rimangono i morti che hanno partecipato alle danze, i venticinque colpi sui quali sono caduti i compagni, presenze di cui solo la letteratura tiene traccia.

Chi è Andreea David

Nata in Romania nel 1995, attualmente studia Filologia moderna presso l'Università degli studi di Padova. Un po' romena un po' italiana, cerca il suo posto nel mondo scrivendo su East Journal di cultura e amenità.

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