Fare rock ‘n roll in Jugoslavia. Milan Mladenovic e gli Ekaterina Velika

Nell’autunno di 25 anni fa si concludeva drammaticamente il destino di uno dei gruppi rock più leggendari della storia jugoslava, gli Ekatarina Velika (detti anche EKV). Il 5 novembre del 1994 si spegneva infatti a Belgrado a soli 36 anni il frontman Milan Mladenović, stroncato da una grave malattia. Con la sua prematura dipartita si sgretolava così l’illusione di poter contrastare attraverso l’attivismo e gli ideali di verità, pace e libertà trasmessi dalla musica lo scenario di guerra che insanguinava il paese.

Milan, nato nel 1958 a Zagabria da padre serbo e madre croata, imparò fin da piccolo a scoprire ed amare la molteplicità del suo paese abitando in diverse sue città per via della carriera militare paterna. Oltre alla città natale, trascorse parte dell’infanzia a Sarajevo, a cui è dedicata una splendida canzone del 1986, a Makarska, la cittadina materna, che ispirò uno dei suoi ultimi pezzi, forse uno dei più “idilliaci”, Jadransko More (“Mare Adriatico”), per approdare infine nella capitale jugoslava Belgrado da ragazzino nel 1970.

Gli esordi della band nella Jugoslavia degli anni ’80

Gli Ekatarina Velika si formarono nel 1981 (inizialmente come Ekatarina II), in un periodo elettrizzante a livello musicale per la Jugoslavia, in cui creatività, innovazione e libertà controculturali si facevano strada nei maggiori centri urbani del paese attraverso il genere della “new wave”. Attraverso il suo impegno musicale, Milan, cantante e chitarrista, nonché compositore della maggior parte dei testi, riuscì a dare vita ad un’impresa leggendaria, portando sperimentazione e profondità “lirica” all’interno della scena rock del paese. La talentuosa tastierista Margita Stefanović, che si unì al gruppo nel 1982, divenne assieme a Milan il nocciolo portante del gruppo. Nella dozzina di anni di attività, in cui la band realizzò 7 album in studio, ai due componenti principali si aggiunsero diversi altri in maniera non continuativa nel ruolo di bassisti e batteristi.

Il grande successo arrivò nel 1986 con l’album S vetrom uz lice, che fece raggiungere loro il vertice della scena rock’n roll jugoslava, in particolare grazie alle canzoni Ti si sav moj bol, Kao da je bilo nekad, Novac u rukama. Nell’anno successivo fu il turno di Ljubav (“Amore”), tuttora considerato uno dei migliori album del rock jugoslavo di tutti i tempi. La canzone Zemlja in esso contenuta (il cui testo venne scritto da Margita) si poneva come reazione alle crescenti tensioni etniche nel paese: utilizzando la parola “terra” (zemlja, appunto), la band intendeva evocare sentimenti di appartenenza ad un suolo comune senza alcuna distinzione, in opposizione al termine di “patria”, resa in croato come “domovina” e in serbo come “otadžbina”, in maniera politicamente esclusivista: “Ovo je zemlja za nas, ovo je zemlja za sve naše ljude” (“Questa è la terra per noi, questa è la terra per tutta la nostra gente”).

L’irrompere della guerra nella musica degli Ekatarina Velika

Prima ancora che la guerra arrivasse, nell’epico album Samo par godina za nas (“Solo un paio di anni per noi”) del 1989 sembrava già esplicitarsi una forma di profezia dello scenario devastante che attendeva il paese. Celebri i versi “ascoltiamo le notizie, dicono che abbiamo ancora solo un paio di anni davanti a noi”. Se la Jugoslavia aveva solo un paio di anni davanti a sé, i giovani componenti della band ne avevano appena pochi di più…

L’album successivo, uscito nella primavera del 1991, con il titolo Dum Dum (in riferimento ai proiettili esplosivi vietati dalla Convenzione di Ginevra) assunse toni ben più cupi, riflettendo l’atmosfera tetra in cui aleggiava il pericolo di una guerra imminente, in seguito alle agitazioni in Kosovo, alleproteste del 9 marzo 1991 a Belgrado contro Milosević e agli incidenti della “Pasqua di sangue” (Krvavi Uskrs) sui laghi di Plitvice. Sulla copertina dell’album, appare Milan con una pistola puntata contro la testa, e nel video dell’omonima canzone Margita rimaneggia le fotografie delle proteste anti-Milosević della capitale come a voler dimostrare quanto facilmente si possa manipolare la verità degli eventi storici. Nel testo della canzone Idemo (“Andiamo”) si susseguono in maniera tragicamente premonitrice immagini di ponti distrutti, villaggi bruciati, sangue ed elicotteri militari, a cui viene contrapposto un messaggio di resistenza ed attivismo: “Le nostre mani non sono legate, le nostre mani non sono delle traditrici (…) È iniziata! È iniziata! Andiamo!”

L’impegno pacifista di Milan

Nell’autunno del 1991, a guerra già iniziata, durante un concerto degli EKV al festival internazionale Mesam di Novi Sad, Milan, premiato con il riconoscimento di “artista dell’anno”, chiese al pubblico di osservare un minuto di silenzio per la città di Dubrovnik sotto bombardamento, suscitando reazioni di sdegno in parte del pubblico, e poi critiche feroci su molti media serbi. Di certo tutto ciò non riuscì a scoraggiarlo. Nel 1992, mosso dai suoi ideali pacifisti, Milan Mladenović si unì al gruppo Rimtutituki composto da musicisti di altre band rock belgradesi, tra cui i Partibrejkers e gli Električni Orgazam, con lo scopo di contribuire a diffondere valori antibellici. Il loro single Slušaj ‘vamo! (“Ascolta qui!”), pubblicato dalla mitica radio B92 con il ritornello “Mir, brate, mir” (“pace fratello, pace”) venne promosso attraverso concerti improvvisati su un furgoncino che girava per le strade della capitale.

Quando i Rimtutituki vennero invitati a suonare a Banja Luka nel 1993, Milan si rifiutò di andarci, in segno di sdegno per le atrocità commesse dalle autorità della Republika Srpska, tra cui la distruzione tramite esplosivo della centenaria moschea Ferhadija, risalente al 1579. Nel novembre dello stesso anno si tenne l’ultimo concerto degli EKV a Belgrado, al Sava Centar, in cui un’intro aggiuntiva alla mitica canzone Sarajevo esplose come un vero e proprio lamento per questa città martoriata dalla guerra, con motivi orientaleggianti che sembravano imitare il richiamo del muezzin… In Zajedno (“Assieme”), una delle canzoni di Neko nas posmatra (“Qualcuno ci osserva”), ultimo album degli EKV (1993), veniva ancora una volta ribadita l’opinione degli EKV sulla guerra: “Abbiamo lasciato che le cose andassero troppo lontano. Questa lotta è stata al di sotto della nostra dignità, contro la ragione” (“Mi smo dozvolili da stvari odu predaleko. Ova je borba bila ispod časti, protiv razuma”).

La fase finale fra Brasile e malattia

Fra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, Milan trascorse del tempo in Brasile, registrando l’album Angel’s Breath con Mitar Subotić, suo amico di lunga data, e diversi musicisti brasiliani. Pur avendo la possibilità di rimanere all’estero, l’artista decise poi di fare rientro a Belgrado, rifiutandosi di guardare da lontano la guerra fratricida distruggere l’unico paese a cui sentiva di poter appartenere. In una delle sue ultime interviste, Milan dichiarò come il suo più grande desiderio fosse quello di svegliarsi e ritrovarsi nel 1990, rendendosi conto che tutto ciò che era avvenuto in quegli ultimi anni non era stato che un brutto sogno.

Nell’agosto del 1994 si tenne l’ultimo concerto degli EKV nella città montenegrina di Budva, dopo il quale il cantante venne immediatamente ricoverato in ospedale. Fu l’inizio della fine. Dopo la morte di Milan a Belgrado a novembre, il gruppo, così come era avvenuto alla Jugoslavia, si disintegrò, spezzando troppo presto i sogni di quella generazione imbevuta di ideali di pace e convivenza. Bojan Pečar, lo storico batterista, morì di attacco cardiaco nel 1998 all’età di 38 anni, e nel 2002 se ne andò per ultima l’“angelo nero dello Jugo-rock”, la tastierista Margita (Magi) Stefanović, a soli 43 anni.

L’eredità degli Ekatarina Velika oggi

A distanza di un quarto di secolo dal suo tramonto, la musica degli EKV sembra riuscire ad unire tutt’oggi gli abitanti dello spazio ex jugoslavo, nonché la sua diaspora, in un immaginario comune fatto di emozioni profonde. I giovani non si pongono il problema di quale fosse l’appartenenza etnica dei membri del gruppo, e le canzoni risuonano ancora nostalgicamente dalle stazioni radio, oppure vengono suonate da tribute band negli stati successori così come all’estero. Il nome di Milan Mladenović è stato omaggiato in luoghi e vie delle città di Belgrado, Zagabria e Podgorica ed una fondazione è stata di recente aperta in suo ricordo.

Qualche mese fa, in concomitanza con il venticinquesimo anniversario dalla morte di Milan, è uscito per la casa editrice belgradese Makart il volume Sav moj bol, curato da Lidija Nikolić, in cui rappresentanti del mondo musicale e culturale provenienti da diversi paesi dell’ex Jugoslavia (tra cui gli scrittori Miljenko Jergović e Mihajlo Pantić) ricordano Milan, Magi e gli EKV e con loro un pezzo di storia sepolto per sempre. L’opera sottolinea il valore non solo musicale, ma anche poetico dei testi delle canzoni e, nella riflessione di uno degli autori si afferma ad un certo punto come “se più persone in Jugoslavia avessero conosciuto l’opera di Milan Mladenović, non ci sarebbero state la fame, le guerre, i patimenti, le migrazioni forzate”, confermando quanto alto sia il valore attribuito al messaggio umano e civile di questa indimenticabile band.

Foto: youtube

Chi è Giustina Selvelli

Assistant professor presso l’università di Nova Gorica, si occupa di migrazioni e lingue, di minoranze e confini, di diversità bioculturale e sistemi di scrittura.

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