Estonia

ESTONIA: “La Russia ci renda i territori occupati”

Il parlamento estone, per bocca del portavoce Henn Põlluaas, ha chiesto nelle scorse settimane la restituzione dei territori che la Russia si è illegalmente annessa dopo l’invasione sovietica del 1940 e mai restituiti alla sovranità estone. Si tratta di una fascia di territorio a nord-est del paese, tra la città Petseri – in russo, Pechory – e la città di Jaanilinn, che i russi chiamano Ivangorod. “La Russia si è annessa il 5% del nostro territorio nazionale. Un’annessione che non ha nulla di diverso dall’occupazione della Crimea”, ha dichiarato Põlluaas.

La richiesta estone riflette un clima di crescente nazionalismo all’interno del paese. L’ondata sovranista e identitaria che sta attraversando l’Europa non ha risparmiamo la piccola repubblica baltica, storicamente molto sensibile alla questione nazionale. L’attuale governo eletto la scorsa primavera è il risultato di una coalizione che comprende anche un partito di estrema destra, EKRE, che si definisce patriottico, al contempo euroscettico e russofobo, il cui leader, Martin Helme, ha chiesto la chiusura delle scuole russe nel paese, denunciando il secolare tentativo di russificare il paese da parte delle autorità di Mosca, fossero queste zariste, sovietiche o – appunto – putiniane.

Il partito EKRE si pone inoltre come principale difensore del Trattato di Tartu che stabilisce i confini tra Russia ed Estonia. La questione ricade nel novero delle strumentalizzazioni del passato allo scopo di ottenere immediati vantaggi politici. Tuttavia c’è del giusto nelle rivendicazioni estoni, e c’è del vero nei suoi timori verso la Russia.

Il Trattato di Tartu

L’indipendenza estone si realizza come conseguenza della Rivoluzione bolscevica del 1917 e della Prima guerra mondiale. Da un lato, gli estoni appoggiarono le truppe “bianche”, fedeli alla repubblica russa instaurata dopo la deposizione dello zar Nicola II; dall’altro la smobilitazione delle truppe tedesche e la sconfitta della Germania apriva nuovi spazi politici. La guerra di liberazione nazionale degli estoni culmina con la vittoria sui “rossi” bolscevichi (anche grazie all’appoggio britannico) e con l’indipendenza sancita dal Trattato di Tartu del 1920.

Tale trattato stabiliva i confini tra l’Urss e l’Estonia. Ma quando, al termine della Seconda guerra mondiale, l’Urss occupò e annesse la piccola repubblica baltica, i confini vennero unilateralmente modificati da Mosca.

All’indomani della ritrovata indipendenza, nel 1991, gli estoni chiesero che si ristabilissero i confini sanciti dal Trattato di Tartu, e non senza ragione: è quello l’unico trattato che regola la questione tra i due paesi. La questione è rimasta in sospeso e si trascina ormai da quasi trent’anni.

Territori occupati?

Definire “territori occupati” quelli attualmente controllati dai russi, e paragonare la questione all’occupazione della Crimea, è ovviamente una forzatura. Il nazionalismo estone è oggi marcatamente russofobo, benché i timori nei confronti di Mosca siano tutt’altro che immotivati. La Duma, cioè il parlamento russo, ha messo in discussione la legittimità dell’indipendenza dei paesi baltici, Estonia compresa. Un’iniziativa portata avanti, nel 2015, proprio da Russia Unita, il partito di Putin.

L’influenza russa sull’economia e sulla politica del paese è molto marcata, e da più parti si teme uno ‘scenario ucraino’ a causa della presenza di una nutrita comunità russofona (il 25% della popolazione) molto sensibile alla propaganda di Mosca. Dal canto suo, la comunità russofona ha tutte le ragioni per recriminare: dal 1993 si parla di una riforma della scuola, mai fatta. Per i russi, esiste un passaporto grigio: non sono estoni a tutti gli effetti, ma apolidi. Per la cittadinanza bisogna superare un esame sulla Costituzione, in lingua estone.

Il nazionalismo estone: inventato dai tedeschi

Durante la dominazione russa, in pieno Ottocento, un gruppo di intellettuali di origine tedesca raccolti nella Gelehrte Estnische Gesellschaft (“Società delle lettere estoni”, ma si noti che il nome è in tedesco) si convinse come tutti in quell’epoca che le nazioni esistessero da sempre, intatte e pure, benché sepolte nel passato. Sulla scorta della lezione dello studioso tedesco Johann Gottfried Herder, il quale legava insieme i concetti di lingua e nazione, la letteratura diventava l’unica la via per riscoprire il “genio” nazionale che, diceva il filosofo tedesco, si conserva nel popolo in cui – immutata e protetta da secoli di analfabetismo e ignoranza – sopravvive la cultura autentica. Il popolo, e non le aristocrazie così cosmopolite e tra loro imparentate, custodiscono la nazione.

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Così quel gruppo di intellettuali tedeschi affidò a uno scribacchino, anche lui tedesco, umile figlio di servi della gleba e mezzo autodidatta, il compito di girare per le campagne raccogliendo le antiche saghe che, si supponeva, il popolo contadino conservava. E con esse, recuperare la lingua. Quella estone.

Il giovane scribacchino, Friedrich Reinhold Kreutzwald, fece del suo meglio ma trovò solo qualche frammento di storie e leggende popolari. Non si disperò e, come s’usava allora, ci mise del suo per riempire i molti buchi di quella che divenne un poema, il Kalevipoegpresto assurto a mitologia fondativa della nazione estone. Lo scribacchino divenne padre della patria. Non una novità, visto che tutto iniziò in Scozia nello stesso modo, con i Canti di Ossian di McPherson, altro falso anticato venduto come genuina mitologia popolare. Era lo spirito dell’epoca, che farci?

Tuttavia il nazionalismo estone è un’invenzione di una minoranza tedesca. Un dato che ci dice molto sul nazionalismo in generale, oltre che su quello estone. Ma il Novecento, con la sua barbarie, ha fatto del nazionalismo un’altra cosa.

Lo specchio delle paure

Le guerre, l’occupazione sovietica, la repressione nazionale e i tentativi di russificazione, hanno trasformato il nazionalismo estone in qualcosa di radicalmente diverso: identitario ed esclusivo. Negli ultimi anni si sono diffusi preoccupanti movimenti estremisti, neopagani, con simpatie neonaziste.

Ogni 23 giugno si festeggia Võidupüha, il giorno dell’Indipendenza, ricorrenza che gli estoni hanno potuto tornare a festeggiare solo dal 1992, al termine della cattività sovietica. Ogni anno una parata cerimoniale viene organizzata dalle Giovani Aquile, corpo che raccoglie i ragazzi e le ragazze della Eesti Kaitseliit, la Lega per la Difesa estone, organizzazione paramilitare che si è data il compito di difendere l’indipendenza del paese. Organizzazione che, negli ultimi anni, ha visto aumentare i propri iscritti a causa del timore di un’invasione russa similmente a quanto avvenuto in Crimea.

L’adesione di tanti giovani a un movimento paramilitare non conforta. Ma cos’è se non lo specchio di quegli altri giovani russi che accorrono sotto le insegne dei “nashi” (lett. ‘i nostri’), la gioventù putiniana, rivendicando i valori della Russia slavofila e anti-occidentale.

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Questi giovani, russi o estoni, sono davanti a uno specchio. E con essi, le società che rappresentano. Entrambe le parti abitano la paura, i russi quella dell’accerchiamento occidentale, gli estoni quella dell’invasione. Entrambe le parti ricorrono a retoriche nazionaliste e patriottarde che servono solo ad alzare la tensione. E soffiare sulla questione del confine conteso è un esempio in tal senso. Ma c’è una differenza. Una paura è un po’ più motivata dell’altra. Non sono infatti gli estoni ad aver invaso e occupato la Crimea, il Donbass, l’Abcasia, l’Ossezia meridionale. E questo un po’ di differenza la fa.

Immagine di Sven Zacek da Deep Baltic

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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