’90 A EST: Le ambiguità della Romania post-comunista

di Rebecca Grossi e Francesco Magno

Spesso su queste colonne abbiamo accennato ai drammatici anni novanta romeni, sottolineando le ambiguità dell’epoca postcomunista: le Mineriade, la povertà diffusa e l’emigrazione massiccia. È tutto riconducibile alle politiche del suo primo presidente Ion Iliescu? Fu soltanto colpa della transizione da un sistema economico comunista ad uno capitalista a provocare tutto questo?

Cambiare tutto per non cambiare niente

Come diversa è stata la rivoluzione rumena, con la violenta e improvvisa fine del regime di Ceausescu, diverso è stato anche il conseguente periodo di transizione postcomunista, con consistenti ritardi nel processo di rinnovamento e trasformazione politica ed economica, che hanno portato alla creazione di grandi divari durante gli anni novanta fra la Romania e il resto dell’Europa centro-orientale.

Alcune peculiarità hanno in particolare caratterizzato gli anni novanta romeni: il fenomeno del “riciclaggio” delle vecchie élites comuniste per esempio, rimaste al potere sotto altre vesti e con altri nomi nelle nuove compagini politiche ed economiche postcomuniste.

Simbolo di questo camaleontismo politico è stato Ion Iliescu, ex membro e figura di spicco del partito comunista rumeno (PCR) riconosciuto come figura chiave negli anni dopo la rivoluzione. Per tre volte presidente del paese – 1990, nel 1992 e nel 2000 –.

Nonostante le positive dichiarazioni di intenti riguardo a una rifondazione su basi democratiche del paese, l’atteggiamento di Iliescu ha sempre suscitato dubbi sul suo reale impegno. Alcuni elementi furono indicativi: il riluttante e tardivo intervento in marzo 1990 per placare gli scontri interetnici a Targu Mures; la sua onnipresenza nei media nazionali, la decisione di reprimere nel sangue la rivolta studentesca di Bucarest del giugno 1990.

Similitudini e affinità fra il vecchio e il nuovo volto della politica rumena furono evidenti in particolare nel modus operandi di Iliescu proprio durante la Mineriada del giugno 1990,  in cui si fece ricorso ai minatori per restaurare l’ordine, metodo cui Ceausescu stesso si era affidato sei mesi prima, nel dicembre 1989, per reprimere le dimostrazioni a Timisoara; la stessa espressione rivolta da Iliescu agli studenti in protesta a Bucarest (golani, teppisti) era stata largamente utilizzata da Ceausescu per rivolgersi ai dissidenti.

Il primo lustro degli anni ’90 è stato totalmente egemonizzato da Iliescu, che prima ha marginalizzato il suo “compagno di rivoluzione” Petre Roman, e poi ha sconfitto l’opposizione guidata da Emil Constantinescu alle elezioni del 1992.

Furono anni di sofferenze interne e di goffi tentativi di legittimarsi all’esterno, per un paese sull’orlo del baratro economico con scarse tradizioni democratiche.

Il processo di avvicinamento all’UE e alla NATO fu lento e farraginoso; il paese non forniva garanzie né politiche né economiche, e gli sforzi occidentali si indirizzarono pertanto verso altri lidi. C’è chi sostiene ancora oggi che furono gli eventi bellici in Jugoslavia alla fine degli anni ’90 a spingere il paese verso l’occidente: il permesso di sorvolare i cieli romeni concesso da Bucarest agli aerei della NATO che dovevano bombardare Belgrado avrebbe spinto i leader europei a prodigarsi maggiormente per la causa romena a Bruxelles.

Le sofferenze economiche

Dal punto di vista economico, la Romania soffrì molto le conseguenze della fine del regime e il cambiamento di sistema.

La privatizzazione delle vecchie imprese statali non seguì lo stesso ritmo accelerato riscontrabile in Ungheria o Polonia. Grazie ai legami molto forti con le alte sfere politiche, vecchi dinosauri di regime (ex membri del partito e dei servizi segreti) riuscirono ad acquistare a prezzi favorevoli le vecchie aziende pubbliche, riciclandosi come prima classe imprenditoriale della nuova Romania libera. Questo ha rallentato il flusso di quel capitale straniero che tanto aveva aiutato Budapest e Varsavia.

A fermare l’ingresso di liquidità occidentale fu anche la complessa situazione politica, infiammata dai frequenti disordini causati dai minatori a Bucarest e dalla turbolenta situazione etnica in Transilvania, caratterizzata dagli scontri romeno-magiari e acuita da figure ambigue come il sindaco di Cluj Gheorghe Funar o Corneliu Vadim Tudor.

La classe dirigente, inoltre, assistette impotente al totale furto delle vecchie aziende agricole di stato, vendute in modo caotico al primo offerente, provocando un vertiginoso crollo della produzione per tutti gli anni novanta. Il disfacimento dell’Unione Sovietica e del COMECON privò la Romania di un mercato sicuro per i suoi prodotti agricoli, ancora qualitativamente troppo scadenti per entrare nel mercato occidentale. Le esportazioni romene rimasero per tutto il decennio sotto il livello del 1989. La bilancia commerciale negativa e la scarsa produttività dell’industria costrinsero governi di ogni colore politico ad accumulare un notevole debito, con cui venivano finanziati gli aumenti salariali promessi a scopo elettorale e l’importazione di beni di consumo.

Sotto la presidenza di Constantinescu si cercò di accelerare la chiusura delle fabbriche improduttive e di attirare maggiori capitali stranieri. L’obiettivo venne raggiunto, ad un prezzo molto alto: aumentò notevolmente il numero dei disoccupati, che nel 1998 arrivò al 12 percento. Di fronte alla totale mancanza di programmi di riconversione professionale, molti romeni presero la strada dell’emigrazione verso ovest.

La diaspora romena nasce in questi anni, e nonostante molti siano tornati in patria, sono ancora milioni i romeni all’estero.

Su tutti questi eventi pesò l’eredità della vecchia Securitate comunista, nonostante l’avvio di un processo di smantellamento e rinnovamento dei servizi di sicurezza, presupposto per il consolidamento democratico.

La sua perdurante penetrazione e ingerenza nelle strutture economiche e politiche della Romania postcomunista fu evidente in diverse occasioni. Durante la Mineriada di giugno 1990 venne per esempio alla luce che membri della Securitate avevano preso parte alle attività di dispersione dei manifestanti a Bucarest; durante la Mineriada di settembre 1991 divenne invece di dominio pubblico l’ingerenza del direttore dei servizi di intelligence rumeni nella crisi di governo che portò alle dimissioni del primo ministro Roman.

Progetti economici espressamente assistenzialisti, ingerenza eccessiva dei servizi segreti, frange politiche con limitato senso democratico, sono mali che ancora oggi affliggono la Romania; problemi decennali che negli anni ’90 hanno trovato la loro finale sublimazione.

Foto: OBC

 

Chi è Rebecca Grossi

Appassionata di politica e di tutto ciò che sta al di là della ex Cortina di ferro, ha frequentato Studi Internazionali a Trento e Studi sull'Est Europa presso l'Università di Bologna. Dopo soggiorni più o meno lunghi di studio e lavoro in Austria, Grecia, Germania, Romania e Slovenia, abita ora a Lipsia, nell'ex DDR, dove è impegnata in un dottorato di ricerca sul ruolo del Mar Nero nella strategia geopolitica della Romania. Per East Journal si occupa principalmente di Romania e Turchia.

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