RUSSIA: Сari fratelli ucraini, benvenuti in Kamchatka!

La Kamchatka è per molti una terra semi-sconosciuta e lontanissima, nota per le sue temibili temperature e i suoi paesaggi da sogno, dove gli imponenti vulcani ricoperti tutto l’anno da un manto di neve bianca entrano in contrasto con il nero brillante dei campi di lava e con le eruzioni esplosive dei geyser che tormentano la quiete perpetua di questa penisola. Una terra a quanto pare freddissima e poco accogliente, che non pullula certo di vita.

Ma questo territorio dell’estremo oriente russo, a ben 9 ore di fuso orario da Mosca, non è in realtà così perduto e inospitale come può sembrare. Si sta anzi ripopolando piano piano, ancora una volta grazie all’emigrazione. Non si parla tuttavia di gulag, esilio o campi di lavoro, ma di un’emigrazione in un certo senso forzata: la fuga dalla guerra in Ucraina.

Una scelta difficile: combattere o fuggire

Il loro paese natale è in piena guerra civile, le loro case distrutte, la loro vita quotidiana interrotta a tempo indeterminato; molti non hanno più un lavoro, un’occupazione o un tetto sicuro sopra la testa. Che fare? La domanda fatidica che si pone lo scrittore russo N. G. Černyševskij nel 1862 oggi non è per niente scontata per il popolo ucraino.

Alcuni coraggiosi, incoscienti, amanti del rischio o fedeli alla propria patria, hanno deciso di restare. Ma restare oggi nel Donbass e a Lugansk significa essere pronti ad uccidere, arruolarsi, combattere, scavare trincee e vivere tra le macerie. E non tutti sono disposti a farlo. E chi non è disposto a farlo deve comunque fare i conti con la propria vita, che non è più quella di prima; deve cercare di sopravvivere e convivere con la paura quotidiana di ritrovarsi senza casa o vedere il vicino colpito da una bomba. Un altro tipo di combattimento, ma pur sempre coraggioso e complicato.

“Non siamo fuggiti solo dalla guerra, ma anche dalla crisi economica: non c’è più lavoro, manca l’elettricità, le banche sono chiuse, i negozi sono vuoti o, se rimane qualcosa, costa tutto il triplo” – afferma uno dei profughi, e aggiunge: – “Anche se domani la guerra finisse, non ci sarà nulla per i prossimi dieci anni”.

La popolazione civile vive nell’angoscia, non ha più punti di riferimento e ha quindi dovuto fare una scelta, e per molti autoctoni questa scelta è stata la fuga: abbandonare, almeno temporaneamente, la propria patria e ricominciare una vita migliore all’insegna della pace. Ma dove ricominciare da zero?

Kamchatka: qui comincia la Russia

Il tanto bramato Occidente è talvolta una meta irraggiungibile, perciò non resta che dirigersi verso est: ecco il destino di migliaia di profughi provenienti dai territori ucraini colpiti da una guerra che viene ancora troppo spesso erroneamente chiamata “crisi”.

Ma perché proprio l’Estremo Oriente russo? Non certo per libera scelta. Il governo di Vladimir Putin la scorsa estate ha infatti messo in atto una vera e propria “operazione profughi”, impegnandosi ad accogliere in due regioni della Federazione Russa i suoi vicini di casa vittime del conflitto in corso, lasciando comunque agli interessati la decisione finale sulla meta da raggiungere: trasferirsi in Chukotka [territorio artico dello Stretto di Bering, ndr] o in Kamchatka.

La maggior parte degli sfollati ha scelto la seconda, dove le possibilità di trovare un lavoro sono più alte. Ma questa non è l’unica ragione: “Conosco la Chukotka grazie alle canzoni di Vladimir Kuzmin, e la Kamchatka grazie a quelle di Viktor Coj. Preferisco però le canzoni di quest’ultimo, per questo sono qui.” (Artur Zherdev).

Il governo locale della penisola, grazie alla carismatica vice-presidente regionale Valerija Korpenko, ha fatto l’impossibile per accogliere nel migliore dei modi tutta questa gente bisognosa. All’arrivo i profughi sono stati sistemati al centro d’accoglienza “Albatros”, dove hanno ricevuto l’assistenza necessaria per i primi tre mesi: alloggio, cibo e un aiuto di 5000 rubli (all’incirca 92 euro). Molti di loro hanno subito cominciato a lavorare, dimostrando così non solo la loro gratitudine, ma anche la loro voglia di ricominciare una nuova vita, lontano dalla violenza.

“La via Molchanova è caratterizzata da edifici grigi a cinque piani circondati da enormi cumuli di neve, le strade assomigliano a trincee: a destra un muro di neve, a sinistra un altro muro di neve. Sembra di essere a casa, invece a soli 690 chilometri c’è la frontiera canadese. A causa dell’euromaidan siamo più vicini che mai all’Occidente!”

Secondo le informazioni dell’ufficio di collocamento e delle politche migratorie nel periodo tra giugno 2014 e gennaio 2015 la città di Petropavlovsk-Kamchatkskij ha accolto più di 740 profughi provenienti dall’Ucraina, di cui oltre 400 hanno già trovato un impiego.

La situazione, tuttavia, non è così idilliaca come sembra e le discordie sul tema non mancano. Sebbene inizialmente la popolazione locale si sia rivelata molto accogliente e disponible procurando vestiti, mobili, giocattoli e molto altro ancora ai loro “fratelli”, col passare dei mesi la loro fraternité ha cominciato a calare, arrivando addirittura ad additare come “scrocconi” i nuovi arrivati.

Le ragioni di questo cambiamento improvviso sono tuttavia comprensibili: il budget stanziato da Mosca per assistere i profughi si è rivelato insufficiente e le autorità locali sono state obbligate a provvedere di tasca propria, attingendo ai finanziamenti destinati all’intera penisola. Valerija Korpenko ne è consapevole e comincia a preoccuparsi: “Questo periodo di transizione per riprendersi dall’orrore non può durare in eterno, e se veramente queste persone vogliono costruirsi una nuova vita nella regione sono i benvenuti, ma devono cominciare a diventare indipendenti”, afferma la vice-presidente.

Il problema per ora rimane in sospeso e la decisione rimandata ancora di qualche mese. Se la situazione nel Donbass tornasse normale, entro la fine dell’estate i rifugiati dovranno scegliere: ritornare a casa oppure ottenere la cittadinanza russa e vivere nella penisola come un qualsiasi cittadino in regola.

Foto: Viktor Gumenjuk

Chi è Claudia Bettiol

Nata lo stesso giorno di Gorbačëv nell'anno della catastrofe di Chernobyl, sono una slavista di formazione. Grande appassionata di architettura sovietica, dopo un anno di studio alla pari ad Astrakhan, un Erasmus a Tartu e un volontariato a Sumy, ho lasciato definitivamente l'Italia per l'Ucraina, dove attualmente abito e lavoro. Collaboro con East Journal e Osservatorio Balcani e Caucaso, occupandomi principalmente di Ucraina e dell'area russofona.

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Un commento

  1. Alessandro Cerchi

    L’intervistato che afferma “…non ci sarà nulla per i prossimi dieci anni” esemplifica molto bene il nodo fondamentale che, al di là di vagheggiamenti novorossisti, protezione dei russofoni dalla giunta nazista di Kiev, messa in sicurezza dei confini dalla minaccia della NATO e amenità assortite, rappresenta oggi il Donbass: la devastazione economica e demografica. Senza statistiche ufficiali è arduo immaginare cosa siano oggi, numericamente, gli oblast di Donetsk e Luhansk. Non c’è bisogno, però, di fini analisi per comprendere come, al di là dei morti, oltre un milione di profughi, una popolazione allo stremo, la devastazione delle infrastrutture e delle vie di comunicazione renderanno questi luoghi assolutamente ingestibili da Kiev, e difficilmente sostenibili dalla Russia (forse che Putin sperasse in un blitzkrieg sul modello Crimea, così da poter annettere o controllare politicamente regioni solide e capaci di relativa indipendenza economica?). Qualunque sarà il destino dell’estremo est ucraino, annessione alla Russia, indipendenza o autonomia entro i confini ucraini, sarà immancabilmente cupo…

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