BOSNIA: Višegrad, da Ivo Andrić al "genocidio"

C’era una volta Višegrad, piccola ed economicamente insignificante città della Bosnia orientale, in quello che per oltre 400 anni ha rappresentato il confine naturale, tra due mondi, due stati, due religioni, e forse due popoli.
C’era una volta il Ponte sulla Drina, “dono di Dio” che per oltre 400 anni ha riunito le sponde di un grosso fiume in una cittadina sperduta e poco abitata. Il ritorno del gran visir ha portato alla piccola città l’architettura del grande impero.
C’era una volta Ivo Andrić, un po’ bosniaco, un po’ croato, un po’ serbo e nessuno dei tre, che 400 anni dopo la costruzione del Ponte sulla Drina di  Višegrad vinceva il primo e unico premio Nobel della storia degli slavi del sud.

Ivo Andrić, bosniaco per l’anagrafe, croato per la parrocchia e serbo per l’accademia riceve nel 1961 il prestigioso riconoscimento per il suo capolavoro Na Drini Čuprija (Il Ponte sulla Drina, appunto), facendo balzare all’onore della cronaca il suo paese, la Jugoslavia. Quella Jugoslavia socialista nata sulle ceneri di una guerra fratricida ed iniziata con l’occupazione nazista nell’aprile del ‘41, grazie anche alla firma dello stesso Ivo Andrić, ambasciatore jugoslavo a Berlino.
Lui che meglio di molti altri ha saputo riflettere l’immagine della Jugoslavia multiculturale – nonostante il suo essere conservatore l’avesse ideologicamente distaccato dal marxismo – ha raccontato al mondo intero l’esperienza dell’occupazione ottomana, dove i cristiani che non si sottomettevano venivano impalati vivi e quelli che erano più fortunati venivano rapiti da bambini, per arricchire il corpo dei giannizzeri e divenire, come nel caso di Mehmet Paša Sokolović, il gran vizir che commissionerà la costruzione di un’ opera voluta da Dio in quella che era la sua città natale.

L’esperienza del Ponte sulla Drina è scandita dal ritmo delle rivolte e delle guerre. La portata “storica“ di questo ponte potrebbe infatti collegare ben di più che due sponde di fiume e invece, nel 1992 è teatro di un’ altra guerra e altro sangue. Mentre i carnefici della guerra usavano il ponte “voluto da Dio” come rampa per liberarsi dei cadaveri, le vittime troveranno nella Drina il loro eterno riposo.

A quasi vent’anni dall’ultima guerra la piccola e ormai insignificante Višegrad torna a far parlare di sé, ma per fortuna o purtroppo il vecchio ponte non c’entra.
Un’ordinanza della maggioranza comunale, comandata dal partito che fu di Radovan Karadžić, il Partito Democratico Serbo, ha imposto che venisse rimossa con una piallatrice la parola “genocidio” dal monumento che ricorda le vittime bosgnacche di Višegrad.

L’azione, che è stata garantita dal dispiegamento di un centinaio di poliziotti in tenuta antisommossa, è stata compiuta alle 7 del mattino, un’ora prima del previsto, per paura che qualcuno potesse provare ad ostacolare la direttiva del comune “cancella, per un futuro migliore e più felice”. Nonostante il tentativo di migliorare la vita a chi ha perso tutto e tutti il comune ha esercitato un diritto su un terreno di proprietà della comunità islamica, come riporta il suo presidente  Bilal Memišević, e non di proprietà del comune. Il monumento, che si trova infatti nel cimitero musulmano Stražište di Višegrad, riporta il seguente epitaffio: “testimoni della verità 1992-1995”; e ancora “monumento a ricordo di tutti i morti e gli scomparsi bosgnacchi, bambini, donne e uomini vittime (del genocidio) di Višegrad”.

Tra le vittime commemorate da questo monumento vi rientrano anche le 59 persone bruciate vive all’interno di un’abitazione in Pionirska ulica per la quale Sredoje e Milan Lukić sono stati condannati dal tribunale dell’Aia, il primo a 30 anni e il secondo a vita.

All’arrivo dei famigliari delle vittime, accompagnato da alcuni esponenti di ONG (come “Žena-Žrtva Rata” e “Višegrad 92”), lo sgomento e la rabbia per l’accaduto è durato pochi minuti. L’episodio si è concluso infatti con il coraggio di una donna che, armata di rossetto, ha riscritto la parola genocidio andando simbolicamente contro il processo revisionistico del comune di Višegrad.

Il giornalista Predrag Blagovčanin ha commentato la vicenda sostenendo che a Višegrad il genocidio continua: “il principio è lo stesso, tutto il resto sono sfumature”.
Chissà invece cosa direbbe lo scrittore Ivo Andrić, nell’affrontare di nuovo quella piccola cittadina che gli ha ispirato il suo capolavoro maggiore. E il vecchio ponte, continuerà ad essere il testimone di una storia che si scrive, si cancella e si riscrive, o invece riprenderà a collegare quelli che “sembrano” due mondi diversi?

 Foto: tacno.net

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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3 commenti

  1. Ottimo articolo, ricco d’informazioni e di riflessioni aderenti ai fatti e ai problemi di quelle terre. C’è solo da restare senza parole di fronte a tanta reiterata insensatezza.

  2. maria fioravanti

    Il piccolo ponte che vorrebbe unire e non dividere e mai mentire.Un articolo toccante

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