A Turkish soldier waves a flag on Mount Barsaya, northeast of Afrin, Syria January 28 ,2018. REUTERS/ Khalil Ashawi - RC13E270E570

TURCHIA: Afrin, la prova di forza di Erdoğan

In Turchia il 18 marzo non è un giorno come gli altri. In questa data del 1915 gli ottomani ottennero un grande successo contro la flotta anglo-francese nello stretto dei Dardanelli. Fu uno degli eventi principali della campagna di Çanakkale (Gallipoli), che avrebbe contribuito a creare il mito di Mustafa Kemal e gettare le basi della moderna nazione turca. Nella mattina del 18 marzo 2018, mentre in patria si stavano svolgendo le consuete celebrazioni, i reparti speciali dell’esercito turco hanno sfilato vittoriosi nella piazza principale della città siriana di Afrin. Il presidente Erdoğan ha potuto così annunciare la vittoria odierna dal palco di Çanakkale, con uno straordinario impatto simbolico. Questo perfetto sincronismo tra le operazioni militari e la macchina propagandistica  ha rappresentato il momento culminante di una prova di forza clamorosa e per molti versi inattesa – almeno in queste proporzioni – da parte del regime turco.

L’operazione “Ramoscello d’ulivo”, volta a sottrarre la città di Afrin al controllo delle milizie curdo-siriane dello YPG è cominciata poco meno di due mesi fa.  Il via libera della Russia, che controllava lo spazio aereo e aveva una piccola presenza militare nella zona, è stato decisivo nel consentire l’azione turca. Molti osservatori dubitavano della fattibilità di un’operazione così fortemente dipendente dagli ambigui e instabili rapporti tra le potenze coinvolte nel conflitto siriano. Ancora oggi è difficile capire fino in fondo quale possa essere stata la posizione di Assad nell’intesa tra Erdoğan e Putin. Per tutta la durata delle operazioni si è vociferato insistentemente di un possibile accordo tra i curdi e il regime siriano, e piccoli gruppi di miliziani governativi sono sporadicamente comparsi nell’area, senza però dare alcun contributo rilevante.

Si può supporre che Assad, seppure recalcitrando e facendo il poco che gli era possibile per sabotare il piano turco, abbia infine dovuto accettare di ingoiare un boccone per lui molto indigesto.  Tutto ciò è probabilmente funzionale a progetti di più ampio respiro che la Russia coltiva per la regione, agendo da ago della bilancia tra gli interessi – a loro volta non sempre chiari – di Turchia e Iran. Giochi fra le potenze su cui si possono fare solo supposizioni, ma che dal punto di vista dei russi valgono abbastanza da convincerli ad abbandonare i curdi di Afrin al loro destino, e mettere almeno momentaneamente la museruola ad Assad.

Quando la Turchia ha dato il via all’operazione “Ramoscello d’ulivo” ad Afrin, tra gli analisti non c’era grande fiducia su una facile riuscita dell’operazione, di cui alcuni prevedevano un clamoroso fallimento. Le riserve erano in effetti comprensibili. Nella precedente operazione “Scudo dell’Eufrate” (agosto 2016 – marzo 2017), l’esercito turco e i suoi alleati sul campo si erano infatti trovati in grave difficoltà contro i miliziani dell’ISIS ad Al-Bab. In quella occasione le forze armate turche erano sembrate in preda al caos, travolte dagli effetti devastanti del fallito golpe e delle conseguenti purghe, allo sbaraglio e senza una linea strategica chiara.

La pessima prestazione dell’anno scorso proiettava dunque ombre inquietanti in vista di un’avventura sulla carta più difficile, con obiettivi più ambiziosi e contro un nemico più forte e preparato. Molti ritenevano che, con queste premesse, le forze impiegate non sarebbero state sufficienti ad avere la meglio in breve tempo. Certo è che pochissimi pensavano a una conquista della città a metà del mese di marzo.

Ad Afrin la musica è però stata molto diversa rispetto ad Al-Bab. Le operazioni militari hanno da subito seguito una strategia coerente ed efficace.  A partire dal 20 di gennaio i turchi hanno aperto una serie di piccoli fronti lungo il confine siriano attorno ad Afrin, avanzando di pochi chilometri per volta e consolidando le posizioni strategiche nelle aree progressivamente occupate. Questa è stata la fase più lunga e difficile dell’operazione, perché i miliziani curdi avevano preparato piuttosto meticolosamente la difesa dell’area di confine e hanno opposto una strenua resistenza.  Una volta uniti questi diversi fronti e preso possesso di una fascia profonda diversi chilometri lungo tutta la frontiera, nei primi giorni di marzo è scattata la seconda fase dell’operazione. Le forze turche e alleate hanno avanzato verso la città contemporaneamente da sud-ovest e da nord-est. Con grande sorpresa di quasi tutti gli osservatori, questa seconda fase è stata molto rapida. Le difese curde sono collassate in pochi giorni.  Il 10 marzo gli assedianti erano a pochi chilometri dalla periferia di Afrin, e nei giorni successivi il centro urbano è stato progressivamente accerchiato. Nella notte tra il 17 e il 18 marzo i reparti speciali dell’esercito turco sono entrati in una città ormai semi-deserta, senza trovare alcuna significativa resistenza. Gran parte dei civili erano fuggiti attraverso il corridoio umanitario lasciato libero a sud di Afrin, mentre i miliziani si erano dati alla macchia. All’alba la battaglia per Afrin era sostanzialmente conclusa.

Pur rappresentando un successo da un punto di vista strettamente militare, l’operazione Ramoscello d’ulivo ha avuto un prezzo molto pesante da un punto di vista umanitario. Si stima che l’assedio abbia causato l’esodo di almeno 100.000 profughi, in condizioni spesso disperate. Benché la Turchia abbia sempre dichiarato di fare tutto il possibile per evitare di coinvolgere i civili, è certo che un’operazione come questa (caratterizzata da un uso massiccio dell’aviazione e dell’artiglieria pesante) abbia inevitabilmente causato decine e forse centinaia di vittime civili.

Nel corso del conflitto, i portavoce del PYD hanno ripetutamente accusato gli assedianti di commettere crimini di guerra. Tali accuse hanno riguardato soprattutto i miliziani turcomanni e arabo-sunniti dell’Esercito libero siriano, alleati di Ankara e usati massicciamente come “carne da cannone” per le operazioni di terra. Forti riserve e preoccupazioni per il comportamento di queste milizie – e per l’ideologia islamista che animerebbe almeno una parte dei loro aderenti – sono state espresse anche dalla stessa opinione pubblica turca, che pure ha massicciamente sostenuto l’operazione. Fonti curdo-siriane hanno inoltre accusato lo stesso esercito turco di colpire indiscriminatamente i civili. La Turchia dal canto suo non solo ha respinto le accuse, ma ha a sua volta sostenuto che fosse lo YPG a usare i civili come scudi umani. Data la scarsità di fonti indipendenti, le prove presentate da entrambe le parti per sostenere le proprie accuse vanno prese con le pinze. Non c’è però alcun dubbio che l’operazione di Afrin abbia causato una grave e inevitabile crisi umanitaria.

La conquista di Afrin apparentemente rafforza la posizione turca nel complicato scacchiere siriano e rimette in piedi una politica estera che in Medio Oriente sembrava essersi del tutto arenata. La brillante prestazione fornita sul campo di battaglia ridona lucentezza alla stella della potenza militare turca, offuscata dalle gravi difficoltà vissute negli ultimi due anni. La prova di forza di Afrin non rilancia però di certo, agli occhi del mondo occidentale, l’immagine ormai compromessa del regime di Erdoğan. I crimini di cui sono stati accusati gli alleati dell’Esercito libero siriano, oltre all’innegabile capacità dei curdi di attirare la simpatia e la solidarietà di una larga parte dell’opinione pubblica europea, hanno se possibile ancora peggiorato la situazione sotto questo punto di vista.  Sembra però che Erdoğan sia pronto ad accettare volentieri il ruolo di “uomo cattivo d’Europa”.

Per un presidente ormai orientato in una prospettiva eurasiatica e determinato a seguire il modello di leadership putiniano, l’immagine da spendere in Occidente non è più un problema. Erdoğan può anzi sperare che questa lotta mediatica contro il resto del mondo rafforzi l’adesione nazionalistica del popolo turco al suo progetto. Resta da vedere quali saranno le sue prossime mosse. Ma si può prevedere con una certa sicurezza che la resa dei conti tra la Turchia e i miliziani curdi non sia di certo finita qui.

Chi è Carlo Pallard

Carlo Pallard è uno storico del pensiero politico. Nato a Torino il 30 aprile del 1988, nel 2014 ha ottenuto la laurea magistrale in storia presso l'Università della città natale. Le sue principali aree di interesse sono la Turchia, l'Europa orientale e l'Asia centrale. Nell’anno accademico 2016-2017 è stato titolare della borsa di studio «Manon Michels Einaudi» presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Attualmente è dottorando di ricerca in Mutamento Sociale e Politico presso l'Università degli Studi di Torino. Oltre all’italiano, conosce l’inglese e il turco.

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Un commento

  1. Vorrei commentare l’articolo UCRAINA: In attesa di una svolta economica, a quattro anni da Maidan

    Claudia Bettiol 26 minuti fa

    Da KYIV, UCRAINA – Il 2018 doveva essere l’anno di svolta per l’economia ucraina. O forse doveva già esserlo il 2017. Ma i colpi subiti dall’Ucraina nel corso degli ultimi anni, conseguenza degli eventi di Maidan e del conflitto nel Donbass, non sono stati pochi e a risentirne maggiormente è stata proprio la situazione economica. Oggi il paese deve rialzarsi piano piano e cercare di cavarsela tra un’inflazione galoppante, la svalutazione della hryvna e un rincaro dei prezzi (ma non degli stipendi).

    Una crescita economica che tentenna

    La gente ricorda bene come, fino al 2014, il dollaro valesse 8 hryvne, mentre ora raggiunge ormai le 27. Il cambio con l’euro è anch’esso attualmente spropositato: oscilla tra le 32 e le 34 hryvne. Lo stipendio dell’ucraino medio, invece, non si è mosso di un centesimo, ma è andato di pari passo con il cambio valuta: se a novembre 2013 il salario medio in Ucraina era di circa 408 dollari, a settembre 2017 ammontava a 274 dollari.

    L’inflazione, in questi ultimi quattro anni, è salita al 92%. Secondo quanto afferma l’agenzia delle statistiche Gosstat in un solo mese, da dicembre 2017 a gennaio 2018, c’è stato un rincaro dell’1,5%, e rispetto a gennaio 2017 un aumento totale del 14,5%. Il default è stato evitato solo grazie al Fondo Monetario Internazionale che ha concesso un prestito di 17,5 miliardi di dollari in cambio di una vaga promessa del governo ucraino di combattere la corruzione, completare la privatizzazione e aumentare l’età pensionabile.

    Ecc. ecc.

    Ma chi gliela fa fare agli ucraini? Nemini acerrimi di Putin che continuano a confondere con il soviet a amici dell’FMI che li riempie di debiti come noi europei. Poi vedranno!

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