Il 5 dicembre è morto nella sua residenza privata in Svizzera Mihai I Hohenzollern-Sigmaringen, ultimo re di Romania. Da tempo malato, negli ultimi giorni era entrato in una lenta agonia. La notizia ha attenuato le schermaglie politiche che da tempo animano il paese, e messaggi di cordoglio sono arrivati da tutte le forze politiche. Con l’ultimo re è morto l’ultimo barlume di nobiltà di cui poteva godere la Romania. Una nobiltà fatta non solo di titoli, ma di dignità, educazione, capacità di saper stare al proprio posto. Qualità di cui Mihai ha fatto più volte sfoggio durante i suoi 96 anni di vita.
Un re ventenne
Mihai, figlio di re Carol II e della principessa Elena di Grecia, venne incoronato nel 1940. Dopo il fallimentare esito del II arbitrato di Vienna, che riconsegnò all’Ungheria parte della Transilvania, il paese era insorto contro Carol; il generale Antonescu ebbe buon gioco nel metterlo alle strette e costringerlo all’abdicazione in favore del figlio, ritenuto facilmente malleabile e manipolabile, anche e soprattutto a causa della giovane età (19 anni al momento dell’incoronazione). La previsione di Antonescu non si rivelò errata; durante gli anni bellici il neo sovrano si limitò a ratificare decisioni già prese dal generale, vero uomo forte del paese. Mihai non era un mite per natura, ma l’inesperienza e il pesante fardello di ritrovarsi monarca appena alle soglie dell’età adulta condizionarono i primi anni del suo regno.
La guerra tuttavia non attese nessuno; essa costrinse la classe dirigente di tutta Europa a decisioni veloci, dolorose, talvolta tragiche. La Germania, principale alleato della Romania, era stata respinta a Stalingrado, e i sovietici minacciosamente avevano iniziato l’avanzata verso ovest. Molti cercarono di convincere Antonescu ad un cambio di alleanze, ma il generale (anche lui, a suo modo, uomo d’altri tempi) non volle mai venir meno alla parola data al Fuhrer, che lo teneva in grande considerazione. Mihai, abilmente persuaso dall’opposizione, il 23 agosto 1944 decise di far arrestare Antonescu e chiedere un armistizio agli Alleati. Il re sperava di salvaguardare un minimo di indipendenza nel contesto post-bellico, in cui già veniva prefigurandosi l’egemonia sovietica. Purtroppo per lui e per il paese, non riuscì nel suo intento. Tuttavia, secondo autorevoli studiosi e commentatori, la scelta di Mihai di far arrestare Antonescu e chiedere l’armistizio fu decisiva nel convincere Stalin ad assegnare la Transilvania alla Romania.
L’opposizione ai comunisti
Mihai fu l’ultimo strenuo difensore di una Romania democratica. Tra il 1944 e il 1948 cercò in ogni modo di opporsi alla crescente influenza sovietica del paese. I governi, imposti da Mosca, erano di fatto monopolizzati dal partito comunista, ma Mihai fece più volte sentire la sua voce a garanzia delle libertà costituzionali. Tuttavia, la presenza sul suolo romeno dell’Armata Rossa e degli inviati sovietici svuotò di ogni effettiva consistenza il potere regio. L’ultima arma rimasta al monarca fu la mancata firma alle leggi promulgate dal Parlamento, ma quello che passò alla storia come “sciopero reale” non bloccò l’ascesa dei comunisti.
Il 30 dicembre del 1947 il primo ministro Petru Groza e il segretario del Partito Comunista Gheorghe Gheorghiu-Dej si recarono a palazzo reale e costrinsero Mihai a firmare l’atto di abdicazione, concedendogli poche ore per abbandonare il paese. Qualsiasi opposizione sarebbe stata inutile: i comunisti controllavano ormai tutti i più importanti ministeri, la polizia e l’esercito. Il re abbandonò la Romania. Vi sarebbe tornato dopo 43 anni.
Mal visto anche dopo l’89
Caduto il comunismo, Mihai tornò per la prima volta in Romania nel 1990, ma fu immediatamente bloccato dalla polizia e costretto a lasciare nuovamente il paese. La classe dirigente post-comunista temeva la popolarità di cui godeva il sovrano; la sua presenza nel paese avrebbe potuto risvegliare sentimenti monarchici che andavano assolutamente fiaccati.
Nel 1992 Ion Iliescu concesse a Mihai di ritornare qualche giorno nel paese, ma la calorosa accoglienza che fu riservata all’ultimo Hohenzollern convinse l’allora presidente a promulgare un nuovo divieto d’ingresso nel paese della durata di cinque anni. Solo nel 1996, con la presidenza di Emil Constantinescu, al re venne riconcessa la piena cittadinanza romena e il diritto di tornare permanentemente in Romania.
L’ultimo nobile
In un paese dominato da loschi affaristi e politici corrotti, una figura come quella di Mihai rappresentava l’ultimo ricordo della Romania che fu. Quella degli anni ’30, di Bucarest vista come la Parigi dei Balcani, dei grandi intellettuali (Eliade, Cioran), dei caffè eleganti. Una Romania che, come Mihai, venne distrutta prima dalla guerra e, successivamente, da decenni di regime comunista. Un paese che dopo il 1989 non è riuscito a ritrovare quello spirito perso cinquant’anni prima. La Parigi dei Balcani è stata trasformata nel grottesco scenario degli esperimenti di urbanistica socialista di Ceauşescu, la classe dirigente si è abilmente rifatta il trucco ma è rimasta quella comunista. Gli intellettuali veri latitano. Mihai ha tristemente assistito negli anni ’90 all’irreversibile trasformazione del paese che aveva governato. Lo ha fatto in silenzio, con dignità, senza accampare pretese che considerava ormai anacronistiche. Allo stesso modo se n’è andato, dopo 96 anni, la maggior parte di questi lontani dalla Romania. Molti lo accusano oggi di non aver lottato abbastanza per proteggere il paese dal comunismo, cercando una spiegazione, un capro espiatorio per quella che forse è stata la più grande catastrofe del paese. Mihai fece tutto quello che le sue prerogative gli consentivano; modalità estranee alla legalità costituzionale gli erano totalmente aliene. Fu colpevole? Avrebbe dovuto agire diversamente? Saranno gli storici a stabilirlo. Oggi, prima ancora di un sovrano o di un politico, i romeni dovrebbero piangere la fine definitiva della Romania che fu.
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