di Davide Denti
La Polonia ha assunto la Presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea. Uno sguardo su priorità e sfide, e sull’esperienza degli altri paesi dell’Europa centro-orientale nello stesso ruolo.
Dal 1° luglio l’Ungheria ha passato alla Polonia la Presidenza a rotazione del Consiglio dell’Unione Europea. Da mesi Varsavia si prepara ad assumere il compito, sapendo che è una opportunità di visibilità irripetibile per il paese, ma gli eventi del 2011 rischiano di rendere difficile il compito dei servizi diplomatici del governo Tusk.
Cos’è la presidenza a rotazione del Consiglio dell’UE
Il Consiglio dell’Unione Europea è l’istituzione comunitaria che riunisce, a seconda dei differenti settori, i ministri competenti dei 27 governi nazionali dell’Unione. Il Consiglio condivide con il Parlamento la funzione legislativa, e può essere paragonato al Senato americano, dove ogni stato detiene lo stesso potere di voto; inoltre, si occupa delle materie gestite a livello intergovernativo, come la politica estera e di sicurezza comune.
Per via delle funzioni politiche domestiche dei vari ministri, il Consiglio è dotato di una struttura permanente a Bruxelles composta da diplomatici nazionali e funzionari europei. La presidenza a rotazione è stata introdotta per coordinare l’agenda dei lavori e garantire il funzionamento continuo del Consiglio. Negli anni, è diventata sempre più un’opportunità per i diversi paesi per mostrare le proprie capacità organizzative e diplomatiche nella costruzione del consenso, guadagnandone in immagine; per garantire la continuità dei lavori sono state create delle troike, in cui il paese di Presidenza si associa con il predecessore e il successore per acquisire e trasmettere esperienze e priorità.
Il Trattato di Lisbona (2009), che istituzionalizza il Consiglio europeo (a livello dei capi di stato e di governo, differenziato dal Consiglio dell’UE a livello dei ministri) e vi associa un Presidente fisso (Herman Van Rompuy), ha depotenziato il ruolo delle diplomazie nazionali e della presidenza rotativa nella gestione e nel ruolo di definizione dell’agenda del Consiglio UE. Tuttavia, gli stati non hanno voluto abolirla per ora, anche solo per il suo prestigio e possibilità uniche di visibilità nazionale: con la nuova Unione a 27 e più, passerebbero almeno 14 anni prima che tale opportunità ritorni. Per allora la presidenza semestrale potrebbe anche non esistere più; la lista attualmente stabilita si ferma al 2020.
Priorità comuni e non nazionali
L’esperienza degli ultimi dieci anni ha mostrato che il compito della presidenza è meno immediato di quanto sembri: se dà anche agli stati più piccoli la possibilità di influenzare l’agenda del dibattito, può trasformarsi in una trappola. I lavori della presidenza sono considerati gravitare per l’85% su questioni ordinarie di agenda UE; per il 10% sulla gestione degli imprevisti; e infine solo per il 5% sulla priorità specifiche della presidenza semestrale.
Non paga, in questo senso, portare priorità e soluzioni nazionali al tavolo, come fatto da Sarkozy nel 2008 con il progetto di Unione del Mediterraneo, contro cui hanno levato gli scudi tutti gli stati del nord, e il cui risultato, l’Unione per il Mediterraneo, è rimasto da allora completamente inerte. Paga piuttosto, come hanno mostrato le esperienze della Svezia e della Finlandia, inserire le priorità nazionali nel contesto dell’evoluzione dell’integrazione comunitaria. La Svezia è riuscita nel 2001 a lanciare il dibattito sulla certificazione dei prodotti chimici, fino a giungere all’approvazione della direttiva REACH, facendo adottare a livello comunitario gli standard svedesi. La Finlandia, nel 1999, ha rilanciato la Northern Dimension Initiative, facendone uno spazio di discussione diplomatica sui problemi comuni dell’Artico e del Baltico tra paesi UE, EFTA, stati baltici e Russia. Infine il Belgio, nel 2010, ha dimostrato che è possibile condurre una buona presidenza senza avere un governo nazionale, quando si ha una forte esperienza e un’ottima amministrazione (oltre a giocare in casa).
I nuovi stati membri e le presidenze semestrali del Consiglio
L’Ungheria, che ha rilevato dal Belgio la presidenza nel 1° semestre 2011, è stato il terzo tra i nuovi stati membri ad assumere la funzione, dopo Slovenia (1° semestre 2008) e Repubblica Ceca (1° semestre 2009). Le presidenze dei nuovi paesi membri non sono state finora particolarmente brillanti. Un po’ per inesperienza un po’ per ingenuità, tutti e tre i paesi sono stati ricordati più per gli scivoloni che per i meriti.
La Slovenia, che avrebbe voluto centrare lo sguardo dell’Unione sui paesi balcanici, si è trovata presa nella tormenta della dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, e delle diverse politiche degli stati UE sul suo riconoscimento, ed è scivolata su una telefonata di Condolezza Rice per dettare al ministero degli esteri sloveno la posizione da tenere, per naufragare infine sul primo no irlandese sul trattato di Lisbona.
La Repubblica Ceca è arrivata alla presidenza con un presidente della repubblica, Vaclav Klaus, fieramente euroscettico, ed un governo, quello di Marek Topolanek, che è collassato a metà percorso; un percorso definito da più parti caotico, e che è riuscito a rimettere insieme i cocci solo grazie al buon lavoro del governo tecnico di Jan Fischer nel raggiungere un compromesso in grado di convincere l’Irlanda a votare sì ad un secondo referendum sul trattato di Lisbona.
Infine l’Ungheria, la cui presidenza ha avuto forse l’effetto paradossale di concentrare l’attenzione dell’Unione sui pericoli del crescente autoritarismo interno del governo di Viktor Orban, che nel giro di sei mesi ha cercato di passare una legge per mettere sotto controllo i mezzi d’informazione, ha riscritto la Costituzione e si è attirato ulteriori critiche per l’ipocrisia sulle politiche di integrazione dei rom. I magiari ha visto fallire l’obiettivo di estendere l’area Schengen a Romania e Bulgaria, e sono stati infine travolti dalle conseguenze delle rivolte arabe sulla sostenibilità stessa di Schengen.
La presidenza polacca: priorità, strategie, sfide
Dati i precedenti, sarà difficile per la Polonia fare di peggio; tuttavia sarà meglio che la squadra di Tusk analizzi le lezioni delle altre presidenze, a partire da quella ceca. Varsavia può contare quantomeno su un governo solido e filo-europeo, e su un ministro degli esteri esperto e credibile. Dall’altra parte, Tusk ha accettato di correre un rischio nel calendarizzare per ottobre, durante il semestre di presidenza, delle elezioni politiche che non dovrebbero comunque riservare sorprese maggiori se non un possibile allargamento a sinistra della coalizione governativa.
La Polonia ha scelto come priorità della presidenza, oltre alle necessarie negoziazioni del bilancio 2014-2020, i temi della difesa, dell’energia e del vicinato orientale. Tuttavia sarà soprattutto il contesto internazionale a definire le effettive sfide che la diplomazia polacca dovrà affrontare a Bruxelles: in primis il rischio di bancarotta della Grecia, che potrebbe mettere a repentaglio l’intera zona euro, quindi la necessità di riformare il sistema di Schengen e Dublino-2, e ricostruire la strategia UE verso i paesi del Mediterraneo nella fase di transizione democratica. Tusk farà bene a prepararsi a tenere saldi i nervi e il timone dell’Unione, se altre crisi inaspettate dovessero presentarsi all’orizzonte.
Come pubblicato su Gazzetta Italia di giugno 2011 🙂
http://www.gazzettaitalia.eu/