La besa rappresenta uno dei principi cardine del Kanun, il più importante codice consuetudinario albanese. Il lemma besa potrebbe essere tradotto in ‘parola d’onore‘ o ‘promessa’ o ancora ‘parola data’. In realtà si tratta di un termine così strettamente legato al contesto all’interno del quale è nato e si è diffuso, da non poter essere trasposto in maniera chiara in nessun’altra lingua.
Per gli albanesi besa ha un significato molto preciso: non si tratta di una semplice promessa, ma piuttosto di una garanzia di veridicità, un comportamento attraverso il quale chiunque voglia liberarsi da un debito, deve dare un segno di fede, chiamando il Signore a testimonianza della verità’ (Kanun, III capitolo). Se si considera che la società albanese è stata una società regolata dall’oralità, che ha tramandato oralmente le proprie regole invece di affidarsi alla scrittura, è facile immaginare quanto peso doveva avere la parola data. Soprattutto nei piccoli villaggi tra le montagne del nord dell’Albania, la besa aveva e ha tutt’oggi un grande valore; si tratta di una parola irrevocabile che presuppone l’assumersi un impegno che dovrà essere portato a termine ad ogni costo.
Il concetto di besa, indissolubilmente legato ad un alto senso dell’onore e della giustizia umana, può trascendere le leggi statali o religiose. Grazie a questo codice morale l’Albania ha salvato numerosi ebrei durante l’Olocausto e gli albanesi sono stati insigniti del titolo di ‘Giusti delle Nazioni‘. Al legame tra besa e deportazione ebraica si è ispirata la mostra fotografica di Norman H. Gershman, allestita per la prima volta nel 2008. Il fotografo americano, che per cinque anni è stato in Albania recuperando le testimonianze del salvataggio di duemila ebrei, ha ripercorso un viaggio nella memoria attraverso i suoi suggestivi scatti.
L’idea di besa è così presente all’interno del sentire comune albanese che compare in diverse fiabe popolari, che ne spiegano al meglio l’importanza e il significato. La più famosa tra queste storie è quella che vede come protagonista la famiglia Vranaj, composta da una madre vedova, una figlia (Doruntina) e nove fratelli (tra cui uno, il più piccolo, di nome Costantino). La storia racconta del matrimonio di Doruntina, voluto dal fratello Costantino, con un uomo che viveva molto lontano dalla madre della ragazza. L’anziana vedova fa promettere al figlio che ogni volta in cui sentirà il bisogno di vedere Doruntina, lui gliela riporterà. In realtà poco dopo Costantino e i suoi fratelli moriranno in una sanguinosa battaglia. La madre allora maledice il giovane figlio, ricordandogli di non aver tenuto fede alla sua besa. Dopo questo rimprovero, Costantino uscirà dalla tomba e riporterà Doruntina dalla anziana madre.
Il noto scrittore albanese Ismail Kadare si ispira a questo racconto popolare per scrivere ‘Chi ha riportato Doruntina?‘, romanzo giallo che narra delle indagini del Capitano Stres, incaricato di trovare chi ha riportato la fanciulla dalla madre. Al termine delle indagini Stres affermerà: “Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua besa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti […] Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la besa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina.”