Elezioni in Moldova, Georgia e Romania, la diaspora riafferma il suo protagonismo

Le popolazioni di Moldova, Georgia e Romania, una dopo l’altra, sono state chiamate alle urne. Solo il tempo potrà svelare le vere implicazioni che i risultati di queste elezioni porteranno con sé. Indubbio è, invece, il protagonismo che la diaspora di questi Paesi ha ricoperto nel processo elettorale, da inserirsi nel solco di una rilevanza politica che non è nuova alla categoria e su cui vale la pena prestare la nostra attenzione.

L’autunno di quest’anno è stato segnato da un appuntamento elettorale dopo l’altro: il 20 ottobre la Moldova ha affrontato le presidenziali e un referendum sull’adesione UE, seguita, il 26 ottobre, dalle elezioni legislative in Georgia e poi, il 6 novembre, dalle più celebri presidenziali USA, arrivando il 24 novembre alle presidenzialirumene.

Nel giro di qualche settimana la direzione politica di un’intera regione è cambiata, con ripercussioni che si prevedono globali, considerando gli equilibri, interni e di vicinato orientale, dell’Unione Europea, le relazioni fra USA e Russia ma anche il destino dell’Ucraina, che con l’elezione di Trump è appeso a un filo.

Oltre alla loro importanza futura, queste elezioni nell’immediato ci ricordano di un soggetto politico che noi occidentali tendiamo a sottovalutare: la diaspora. È stata, infatti, la diaspora moldava a riconfermare Maia Sandu alla presidenza del Paese, ribaltando gli esiti domestici. È alla diaspora georgiana che si è rivolta la Presidente Zurabichvili il giorno delle elezioni sostenendo come il futuro della Georgia fosse ‘nelle loro mani’; e poi, di nuovo, a quella rumena ha indirizzato la sua retorica il candidato filorusso e anti-NATO Georgescu, riuscito sorprendentemente a superare il primo turno.

Storia di chi fugge e di chi resta 

All’indomani del crollo dell’Unione sovietica, sono due i tipi principali di gruppi etnici-culturali ad essersi ritrovati al di fuori dei confini nazionali di appartenenza. Da una parte, la cosiddetta diaspora ‘spiaggiata’, emersa dall’improvviso ritrarsi dei confini dell’Unione, facendo sì che ‘milioni di persone si svegliassero in un paese diverso da quello in cui si erano addormentate’. Dall’altra, quella composta da chi, invece, ha lasciato il proprio paese alla ricerca di un futuro migliore, lontano dalle dinamiche di trasformazione – economica, politica e sociale – che ha sconvolto i loro paesi indipendenti.

Rispetto al primo gruppo, negli anni, Mosca ha elaborato una particolare retorica secondo la quale queste persone sarebbero proprio soggetto nazionale in quanto ‘compatrioti’ (sootcestvenniki) e parte di un vaghissimo ‘mondo russo‘ (russkij mir) e nei cui confronti il Cremlino è andato indirizzando varie pratiche di soft power, via via più aggressive, arrivando all’occupazione dell’ Abkhazia e dell’Ossezia del sud nel 2008, l’annessione della Crimea nel 2014 e l’invasione dell’intera Ucraina nel 2022.

Il secondo gruppo, invece, rimane più legato a dinamiche a noi più facilmente comprensibili. Lì dove l’implosione del sistema socialista ha lasciato interi paesi e le loro popolazioni in balia di crisi economiche e politiche, e dove si sono avviati processi di trasformazione duri e complessi, un gran numero di persone ha preferito emigrare. Dai Balcani, dall’Europa orientale e dalle ex repubbliche sovietiche, flussi migratori si sono riversati nella vicina Europa occidentale, ma anche negli Stati Uniti, in Canada e in Israele, ricongiungendosi a comunità di connazionali, e finendo col diventare nuovi soggetti politici, economici e culturali. Il caso più eclatante è quello degli ucraini in Canada. Oggetto di un’ampia ricerca ancora oggi, e motivo per cui lo stato nordamericano è stato il primo a riconoscere la sovranità della Repubblica ucraina indipendente contribuendo alla fine del suo isolamento.

L’incontro e scontro

Tuttavia, l’esperienza ucraina ci insegna una importante lezione: russofono, o addirittura russofilo, non vuol dire compatriota.  L’idea che tutti coloro che parlano russo, o sostengono il mantenimento delle relazioni, economiche o politiche, con il Cremlino, non lo fanno necessariamente perché si identificano come suo soggetto nazionale. Chi oggi vota Stoianoglu, Sogno Georgiano o Georgescu, non lo fa perché spera in una riannessione alla Federazione Russa, ma anzi, in considerazione di interessi nazionali. A Mosca piacerebbe che tutti questi elettori si considerassero sua diaspora, suoi compatrioti, ma così non è, e, nei fatti, il primo gruppo è diasporico solo nella retorica che proviene dal Cremlino. Il fatto è che le condizioni per l’integrazione economica e politica europea sono dure, necessitano di tempo e riforme, e per chi sente che la crisi è già qui, legami più stretti con Mosca potrebbero essere una via più rapida, anche quando si è già parte dell’UE, come conferma l’inaspettata ascesa di Georgescu in Romania.

E’ dall’altra parte del confine che le vere diaspore si mobilitano politicamente fino a ricoprire un ruolo centrale negli equilibri domestici. Un attivismo politico che diventa  ‘responsabilità morale’ e un modo per partecipare allo sviluppo del paese d’origine,  sperando di portare il proprio paese più vicini a sé, all’Occidente, e, nel caso moldavo e georgiano, all’UE. Oppure, al contrario, per portare sé stessi, più vicino alla madrepatria. A determinare, infatti, quello che potrebbe sembrare un allontanamento da questa tendenza nelle elezioni rumene, c’è la promessa di Georgescu alla diaspora di “rendere la Romania abbastanza buona da farvi tornare a casa”, oltre che a discutibili strategie di engagement, soprattutto attraverso social come Tiktok e l’uso di bots.

Il sogno dell’ideologo 

Non uno scontro fra diaspore dunque ma fra retoriche: quella russa, che identifica potenzialmente chiunque come proprio soggetto nazionale e interferisce, quando non attacca; quella dei candidati filo-occidentali che si appellano alle diaspore per procedere in direzione ovest, ma anche dei candidati non-europeisti, che ugualmente iniziano a riconoscere il peso politico della diaspora e, indirizzano promesse populiste ai suoi strati meno istruiti.

Il problema si pone quando queste retoriche diventano pratiche. Basti considerare gli ostacoli affrontati nel processo elettorale, ora dalla diaspora georgiana, come allora da quella romena (2014) e che sembrano la realizzazione del sogno di Dugin, il così detto ‘ideologo del Cremlino’, seppur ben meno influente di quanto i suoi appellativi inducano a credere. E che, in risposta all’appello della presidente Zourabichvili, sosteneva come i Georgiani che vivono fuori dal Paese, siano ‘traditori e non dovrebbero neanche poter votare, perché non ne sono degni. […] se sei georgiano, vivi in Georgia’. 

Parole, dalle quale emerge come, finora, esistesse un’equazione non scritta fra filo-europeismo e diaspora. Infatti, ad aver colto le potenzialità della diaspora, sembravano soprattutto i candidati più filo-occidentali. E la strategia di Georgescu apre improvvisamente a una nuova fase di protagonismo per le diaspore. Talmente sorprendente, da aver portato all’annullamento stesso dei risultati elettorali romeni, non privo di contestazioni, e che ci deve far riflettere sul futuro dell’Unione Europea, attraversata da un’ondata di sfiducia e instabilità dall’interno. Ma anche sul suo allargamento, verso quei paesi che ora vedono l’ingresso come propria unica possibilità di sopravvivenza e che ora promuovono una visione idealizzata di Europa, ma che portano con sè il rischio futuro di scontrarsi con una realtà non all’altezza, seminando il germe per la futura ascesa di nuove Ungherie e Romanie, a futura destabilizzazione dell’Unione.

Chi è Luca Ciabocco

Ha ottenuto una laurea triennale in lingue e culture straniere presso l'Università di Urbino, ed è attualmente studente magistrale di studi dell'est Europa ed euroasiatici a Bologna. I suoi interessi riguardano nazionalismo, identità e aspetti sociali e culturali dello spazio post-sovietico.

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