ROMANIA: Continua la protesta. Indignati o conservatori?

Le proteste scatenate dall’approvazione d’urgenza da parte del Partito Socialdemocratico (PSD) del cosiddetto decreto “salva corrotti” sono in corso in Romania da più di dieci giorni. A seguito dell’ondata di proteste, il governo ha ritirato il decreto che depenalizzava i reati di corruzione e l’abuso d’ufficio nei casi in cui l’illecito non superasse i 44 mila euro, e alcuni esponenti del governo hanno rassegnato le proprie dimissioni. Nonostante questo, le dimostrazioni di piazza non si sono fermate e i manifestanti continuano ad occupare piazza Vittoria chiedendo le dimissioni del primo ministro Grindeanu.

I media le hanno battezzate “proteste anti-corruzione”, in quanto scatenate dallo sdegno dei cittadini nei confronti di una classe dirigente considerata corrotta e irresponsabile. Nonostante la grande copertura mediatica che le proteste hanno ricevuto, sono state poche le analisi che sono andate oltre il plauso alla vittoria del popolo romeno sui propri governanti. Tra queste, rilevante quella a cura di Florin Poenaru, che dalla pagina di Left East sottolinea come queste proteste non siano solamente contro il governo, ma anche apertamente a favore di alcune istituzioni dello stato e del presidente della repubblica Klaus Iohannis.

Iohannis è un membro del Partito Nazionale Liberale (PNL), liberale conservatore, e controlla anche i servizi segreti che, come ricorda Stefano Bottoni nella sua intervista a East Journal, “in Romania ricoprono un crescente ruolo politico”. Anche i repertori di protesta usati dai dimostranti, dalle bandiere nazionali che sventolano nelle piazze al canto dell’inno nazionale “Risvegliati romeno!”, suggeriscono un’interpretazione delle proteste come aventi un carattere prettamente conservatore. In piazza non ci sono solo i giovani e cittadini di ogni età che vogliono esprimere apertamente la loro indignazione verso un sistema corrotto, ma ci sono soprattutto i partiti d’opposizione al partito social-democratico, descritto come “la piaga rossa”. Queste proteste rappresentano la sconfitta della sinistra, nota ancora una volta Poenaru, che aggiunge: “Involontariamente, come nel passato, il PSD è riuscito a risuscitare una destra moribonda”.

Dalla corruzione alla democrazia

Negli stessi giorni, tre anni fa, scoppiavano le proteste in Bosnia Erzegovina, passate alla storia per essere state le più violente – e sicuramente le più mediatiche – del dopo guerra. Guardando a ritroso, si possono scorgere alcune analogie tra le attuali proteste in Romania e quelle in Bosnia Erzegovina del 2014. Innanzitutto, entrambe sono state scatenate da un movente ben preciso: l’approvazione del decreto salva-corrotti in Romania, la bancarotta delle fabbriche di Tuzla in Bosnia. In entrambi i casi, i manifestanti hanno ampliato e intensificato le domande iniziali, arrivando a chiedere il rispetto della democrazia e un ricambio della classe dirigente. Entrambi gli episodi si caratterizzano inoltre come l’espressione di un malcontento generalizzato verso un’intera classe politica, accusata di essere corrotta e di “non fare il proprio lavoro”, anzi, di derubare i propri cittadini. Simili pertanto gli slogan scanditi nelle piazze e indirizzati ai politici di entrambi i paesi: “Ladri!” (lopovi in Bosnia, hoti in Romania). Sia in Romania che in Bosnia Erzegovina, i manifestanti hanno rivelato una scarsa fiducia nei confronti dello stato e, al contrario, crescenti aspettative nei confronti dell’Unione Europea, oltre ad una rinnovata coscienza civica che si esprime attraverso l’occupazione dello spazio pubblico e dimostrazioni di piazza.

La difficile costruzione dell’alternativa

Il riferimento al passato, invece, è usato in modo opposto. Se la corruzione attuale in Romania viene attribuita all’eredità comunista, il passato socialista della Bosnia veniva visto con una certa dose di nostalgia dai lavoratori delle fabbriche andate in bancarotta. Anche il desiderio di partecipazione è stato espresso ed articolato in modo diverso. In Romania manca il tentativo di creare un’alternativa, che invece in Bosnia c’era stato. Un’alternativa a suo modo fragile, che ebbe vita breve, ma che seppe avanzare proposte politiche e tentativi di riforma elaborati nelle assemblee cittadine conosciute come plenums. In Romania non sono stati creati i plenumsnon si è usato un metodo partecipativo ispirato ai principi della democrazia diretta, non è (ancora) stata creata una piattaforma politica in grado di elaborare le domande dei cittadini. In poche parole, l’opposizione romena non sembra essersi organizzata al di là della mera espressione del dissenso tramite dimostrazioni e occupazione delle piazze.

Le ricadute delle proteste romene nell’area balcanica

Per quanto riguarda invece la presunta ricaduta che le proteste romene avrebbero avuto sui paesi vicini (Balkan Insight ha pubblicato un articolo dal titolo “Le proteste romene ispirano gli attivisti nei Balcani”), la reazione al momento si è limitata ad un “encomio del vicino” sui social networks, per aver saputo sfidare con successo la propria classe politica, e ad alcuni sit-ins di protesta di fronte alle ambasciate romene in diversi paesi dell’est.

In un articolo apparso sul portale Kosovo 2.0, intitolato: “Cosa può imparare il Kosovo dagli ultimi sviluppi in Romania?”, l’autore utilizza la Romania come termine di paragone e attribuisce l’assenza di proteste anti-regime alla tensione costante con il vicino serbo, e alla predominante questione della sovranità nel discorso politico, imperante al punto di far passare in secondo piano l’alto livello di corruzione che caratterizza l’intera classe politica della regione. Suggerendo che, finché le questioni di carattere nazionale e le presunte divisioni etniche verranno usate dalla classe politica per mantenere le popolazioni divise, le piazze rimarranno vuote.

Chi è Chiara Milan

Assegnista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore, dottorato in Scienze politiche e sociali presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole (Firenze). Si occupa di ricerca sulla società civile e i movimenti sociali nell'Est Europa, e di rifugiati lunga la rotta balcanica.

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