GRECIA: Debtocracy, quando più del debito sono odiose le prospettive

di Filip Stefanović

Qui per vedere Debtocracy.

Il Guardian l’ha definito il “samizdat del debito greco”. Debtocracy, film documentario di due giornalisti, Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou, è stato prodotto in proprio con circa 8000 euro, ma, distribuito gratuitamente su internet, ha raggiunto in pochi mesi più di un milione di visualizzazioni, venendo anche trasmesso da diverse reti televisive greche locali e proiettato nelle piazze. Al momento è il must see per chiunque, in Grecia e no, voglia discutere del suo debito. Per nulla imparziale, il film vuole trasmettere pochi, chiari messaggi: le colpe dell’euro nell’indebolimento delle economie periferiche dell’Unione, lo sciacallaggio delle banche e la responsabilità del FMI nell’aggravarsi della situazione sociale greca e nella sua fattuale perdita di sovranità, l’idea che il debito contratto dalla Grecia sia in realtà odioso, e quindi il paese non obbligato ad onorarlo, con un parallelo nella storia recente dell’Argentina e dell’Ecuador.

Di indubbio impatto visivo e provocatorio, Debtocracy offre certamente svariati argomenti di riflessione, benché diversi dei punti toccati siano stati eccessivamente banalizzati, altre questioni lasciate invece in sospeso, o liquidate in maniera tutt’altro che definitiva.

Il punto centrale dell’intero j’accuse è la questione del debito odioso, ossia di quale e quanta parte dell’immane somma dovuta dalla Grecia ai suoi creditori interni e soprattutto esteri sia stata contratta contro la volontà e contro gli interessi del popolo greco. Corruzione, sperperi pubblici, appalti truccati, commesse imposte non rientrano certo, o non dovrebbero rientrare, nelle spese di un paese europeo e democratico. Per questo, soprattutto grazie al clamore suscitato da Debtocracy ed alla conseguente raccolta di firme, è stato possibile istituire una commissione d’inchiesta che dovrà verificare nel dettaglio la natura dei prestiti ottenuti nel corso degli anni, stabilendo quale e quanta parte possa legittimamente rientrare nella categoria dei debiti odiosi, e quindi venire forzatamente cancellata dal governo greco.

Ciò però comporta, come che lo si voglia chiamare e giustificare, l’inevitabile default della Grecia. Default non significa bancarotta, non è detto – anzi è improbabile – che la Grecia dichiari insolvibile il 100% del suo debito nazionale; una sua cancellazione anche parziale, o una ristrutturazione per spalmare il debito su tempi più lunghi (proposta del resto avanzata di recente anche da alcuni grandi onanisti della politica nostrana, pur di fare questa benedetta, coraggiosa riforma del fisco), rientrano nella definizione di default.

La realtà, purtroppo, è che il problema non si ferma semplicemente al debito storico. Nel documentario viene tracciato un parallelo con l’Ecuador, che nel 2008, grazie alla volontà e alle capacità del presidente Rafael Correa, dimostrò essere odioso il debito nazionale ecuadoriano per svariati miliardi di dollari, e criminale l’utilizzo dei profitti da estrazione e esportazione di petrolio greggio unicamente per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, riducendo al 20% degli introiti complessivi da esportazione di petrolio la somma pagabile sugli interessi, e la restante parte vincolata per l’implementazione ed il sostentamento del welfare nazionale. Sfortunatamente però, nel nostro caso, la Grecia avrà anche un mare da favola, ma in quanto a riserve di greggio nemmeno l’ombra. Il risultato, in numeri, è che la Repubblica Ellenica soffre, oltre agli interessi sul debito regresso, un disavanzo primario che, secondo i dati forniti dal FMI, era dell’8,5% nel 2009, oltre il 10% per il 2010 (i dati non sono ancora definitivi), e, nonostante la politica di lacrime e sangue implementata con le ultime manovre fiscali, atteso attorno all’8% sin fino al 2014. Ciò significa che, pure nell’ipotesi teorica di un’estinzione totale del debito dall’oggi al domani, la Grecia si troverebbe scoperta per una quota del 10% del suo PIL, che non potrebbe colmare alzando nuovi prestiti (chi presta ad un paese insolvente in bancarotta?), né tagliando la spesa pubblica (già ora il paese è sull’orlo della guerra civile, e l’unica cosa rimasta ancora da tagliare sono le teste), e nemmeno implementando l’esportazione di feta e olive kalamata.

Come già detto, un default parziale è a questo punto l’unica strada ipotizzabile, perché non esiste politica in grado di ripianare un debito del 150% del PIL e in crescita costante, ma cosa succederà dopo è difficile immaginare: storicamente, tutti i paesi che sono andati in default hanno per prima cosa svalutato la propria valuta, di modo da incentivare le esportazione e dare una prima spinta all’economia. Ma per un paese dell’eurozona? O esce sua sponte dall’euro, ma è una mossa azzardata in quanto con una reputazione sui mercati già compromessa dal default significherebbe rinunciare anche all’ombrello di una valuta sicura, o la BCE annacqua il debito del paese in questione stampando moneta e facendo impennare l’inflazione in tutti i paesi membri, ma non vedo perché mai lo dovrebbe fare (è il problema, citato nel documentario, di “una moneta senza stato”). Senza considerare le ripercussioni che un default greco potrebbe avere sui paesi forti dell’Unione, come Francia e Germania, le cui banche detengono alte quote del debito greco, e che potrebbero persino vedersi costrette a loro volta ad una ricapitalizzazione – ragione per cui oggi a Berlino, che fa il bello e cattivo tempo dell’Unione, preferiscono ancora vedere i cittadini greci presi a calci sui denti (che tanto quando manca il pane sono pure di troppo), di qualsiasi altra ipotesi risolutiva.

Le congiunture che rendono la situazione greca particolarmente fragile sono molteplici, e di difficile risoluzione, soprattutto all’ultimo minuto: il buco creato dall’economia in nero (stimato per il 2010 attorno al 25% del PIL), gli alti livelli di corruzione (secondo Transparency International la Grecia è ultima tra i paesi dell’UE, settantottesima su scala mondiale, e certo i tagli alla spesa pubblica non possono contribuire alla sua estirpazione), le esportazioni irrisorie (vitali per un paese di soli 11 milioni di abitanti), lasciano poco spazio all’ottimismo. Se la quota sul PIL degli investimenti in ricerca e sviluppo, pari allo 0,5%, è un valido specchio delle capacità di rinnovamento e spinta innovativa per il paese, non c’è da sperare nemmeno nel futuro.

Mi si permetta, per concludere, un’ultima osservazione: mentre ci occupiamo di Atene, l’Italia ha un debito pubblico del 120%, un’economia in nero del 17%, in fatto di corruzione dalla Grecia ci separano solo Bulgaria e Romania, in ricerca investiamo un misero 1%. Forse è tempo che qualcuno, qui a bordo del Titanic, smetta di ammirare l’orchestra, e uscendo sul ponte ci dica cosa vede, non sia mai qualche iceberg in vista.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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6 commenti

  1. Il presidente dell’Ecuador si chiama RAFAEL Correa…FERNANDO Correa è un calciatore…

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