Cos’è l’autodeterminazione dei popoli?

L’autodeterminazione dei popoli indica il diritto dei popoli sotto dominio coloniale, occupazione militare straniera o regimi razzisti di determinare liberamente il proprio status politico, e di perseguire liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale. Per le prime due categorie (dominio coloniale e occupazione militare straniera), il principio include anche la libera scelta dello status internazionale (autodeterminazione esterna), mentre per i popoli sottoposti a regime razzista include solamente il diritto di partecipare alle strutture di governo (autodeterminazione interna). Autodeterminazione non significa il diritto per le minoranze di secedere, né il diritto alla decolonizzazione, né il diritto alla democrazia.

Attraverso la pratica dei primi vent’anni di vita dell’ONU, gli stati colonizzatori sono stati chiamati a concedere l’autodeterminazione immediata ai popoli colonizzati (nella loro interezza e all’interno dei confini coloniali), da realizzarsi attraverso l’indipendenza, la libera associazione o l’integrazione ad uno stato esistente, e in ogni caso attraverso la consultazione della popolazione tramite plebiscito o referendum. L’autodeterminazione dei popoli è venuta così a coincidere con la libera determinazione dello status internazionale di un popolo.

Quali popoli hanno diritto all’autodeterminazione?

In primo luogo, i popoli residenti in territori sottoposti a dominazione coloniale: territori che sono geograficamente separati ed etnicamente o culturalmente distinti, e soggetti ad un rapporto di subordinazione diversamente giustificato (“territori non autonomi”). Inoltre, il principio di autodeterminazione è stato applicato ai popoli soggetti a dominazione militare straniera (Sahara Occidentale, territori palestinesi), e a regimi razzisti (Sudafrica dell’apartheid). Il principio non si applica alle minoranze all’interno di territori autonomi.

A causa del passare del tempo e del cambiamento demografico delle popolazioni, in alcuni casi (Falklands, Gibilterra, Sahara Occidentale) è ormai riconosciuto che la composizione della popolazione e l’esistenza di rivendicazioni contrapposte di stati sovrani rende impraticabile l’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli.

Cos’è la secessione?

Secessione è l’emergere di un nuovo stato, alle spese di un’entità sovrana preesistente. La secessione è stata la prima causa della creazione di nuovi stati prima della decolonizzazione, ed è tornata ad esserlo dalla fine del processo di decolonizzazione e della Guerra Fredda.

In che modo il diritto internazionale regola la secessione?

La creazione di nuovi stati, anche attraverso secessione, è stata tradizionalmente considerata un dato di fatto. Tuttavia, diversi principi di diritto internazionale regolano le questioni di secessione. In primo luogo, l’uguaglianza sovrana e il rispetto per l’integrità territoriale, come garanzie contro violazioni esterne alla sovranità territoriale. In secondo luogo, il monopolio legittimo dell’uso della forza, nel proprio territorio, da parte degli stati, e il dominio riservato sulle questioni interne riconosciuto dallo Statuto ONU, che permettono ad un governo di rispondere con la forza ad ogni tentativo di secessione violenta.

Contrariamente a quanto avvenuto nel contesto della decolonizzazione, il diritto internazionale non ha riconosciuto un diritto dei movimenti secessionisti di usare la forza, nemmeno in caso di gravi violazioni dei diritti umani contro minoranze o altri gruppi. Il principio di autodeterminazione è rimasto l’unica norma giuridica che interferisce con il processo di creazione degli stati, stabilendo un ‘dovere d’interferenza’ di tutti gli stati della comunità internazionale affinché il diritto di un popolo di stabilire un proprio stato non venga soppresso, e imponendo a tutti gli stati di non riconoscere le conseguenze legali di atti contrari all’autodeterminazione dei popoli, come l’annessione di territori tramite l’uso della forza.

Qual è la relazione tra secessione e autodeterminazione?

Non è escluso che esista un diritto alla secessione in circostanze estreme, in cui la coesistenza di diversi gruppi all’interno di un solo stato sia palesemente impossibile nel lungo periodo, ad esempio quando sia chiaro che ogni tentativo di raggiungere l’autodeterminazione interna sia destinato a fallire. Tali circostanze, tuttavia, non sono ancora state riconosciute dal diritto internazionale, nemmeno nei casi di Biafra, Bosnia-Erzegovina, e Kosovo. Pertanto attualmente il diritto all’autodeterminazione non include il diritto alla secessione e non preclude perciò l’intervento di truppe straniere in un conflitto secessionista dietro invito del governo legittimo. L’integrità territoriale resta il valore fondamentale che gli stati devono rispettare e far rispettare.

E nel caso del Kosovo?

Nel 2011 la Corte Internazionale di Giustizia ha offerto un parere sulla legittimità della dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, stabilendo che tale dichiarazione non era in violazione del diritto internazionale. Il parere della Corte è stato tuttavia criticato, in quanto non tutto ciò che non è in violazione della legge è effettivamente legittimo. In particolari, gli autori della dichiarazione d’indipendenza non avrebbero potuto prendere validamente tale decisione, poiché non rappresentativi del “popolo” kosovaro, se non all’interno del quadro costituzionale di UNMIK, il quale impediva loro di prendere legalmente tale decisione.

In ogni caso, i quasi dieci anni di amministrazione internazionale diretta ONU del Kosovo (1999-2008) hanno fatto sì che un ritorno alla sovranità della Serbia fosse un’opzione inaccettabile per le parti, e in mancanza di accordo delle parti sul piano Ahtisaari di “indipendenza guidata” ciò ha condotto alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza: un atto che, anche se al di fuori del perimetro del diritto internazionale, ha effettivamente dato vita ad un nuovo stato anche attraverso il riconoscimento da parte di ormai metà della comunità internazionale.

E la Crimea?

I casi di Kosovo e Crimea sono diversi. Con l’annessione alla Russia, la questione della Crimea aumenta il proprio livello di intrattabilità, passando dalla fase di stato a limitato riconoscimento (come i vicini postsovietici di Transnistria, Abkhazia, e Ossezia del Sud, oltre che come Kosovo e RoC/Taiwan) alla fase di espansione territoriale di uno stato tramite uso o minaccia illegale della forza ed occupazione militare, come nel caso del Sahara Occidentale occupato dal Marocco, dei territori palestinesi occupati da Israele, o di Cipro Nord occupato dalla Turchia nonostante la sovranità nominale della TRNC. Questo sviluppo è contrario ai più fondamentali principi del diritto internazionale (iug cogens, o norme perentorie/imperative), e pertanto tutti gli altri stati ONU sono legalmente obbligati a non riconoscerne gli effetti giuridici.

Per saperne di più sulla questione della Crimea, si legga qui.

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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