CINEMA: A est di Bucarest, un’esegesi tragicomica della rivoluzione romena

di Silvia Biasutti

Corneliu Poremboiu, classe 1975, originario di Vaslui, cittadina romena prossima al confine con la Moldova, vince nel 2006 la Camera d’Or al Festival di Cannes con il suo film “A Est di Bucarest”. Il titolo originale della pellicola, “A fost sau n-a fost?” (trad. C’era o non c’era?), anticipa la linea di tensione che percorre questo piccolo capolavoro. Il primo movens del regista è quello di dipanare una matassa intricata per la storia contemporanea della Romania: la Rivoluzione del dicembre del 1989 si è accesa come esultazione popolare a seguito della fuga del dittatore Ceauşescu oppure ha provocato la dipartita del Conducător?

La trama del film rivela come il regista (e con lui una buona fetta della classe intellettuale romena), non si accontenti di accettare la dittatura comunista romena come il prodotto della “banalità del male”, per dirla con le parole della Arendt, o di interpretare la storia in base ad una teoria cospirativa. Il regista mette in scena due protagonisti, un pensionato che per sbarcare il lunario si traveste da Babbo Natale e un insegnante di storia con il vizio dell’alcool. I due vengono invitati sedici anni dopo la caduta del regime presso una piccola emittente televisiva romena di provincia a raccontare la loro testimonianza: dov’erano alle 12:08 del 22 dicembre 1989, quando il dittatore romeno lasciava Bucarest in elicottero in una disperata fuga?

Le testimonianze dei due protagonisti si fanno via via più confuse e imprecise, arricchite da dettagli improbabili; alla trasmissione arrivano nel frattempo anche le telefonate degli spettatori, i quali destrutturano le versioni dei due ospiti, apportando nuove e controverse informazioni su quel 22 dicembre di cui nessuno riesce a dare una interpretazione plausibile. La scena della puntata televisiva, zoccolo duro del lungometraggio, diventa così un “teatro dell’assurdo”, a volte comico, a volte drammatico, che fa emergere volutamente la fotografia di un paese che è ancora agli albori di un processo di lettura critica dei fatti storici.

Nonostante il film sia stato girato con una buona dose di improvvisazione, con inquadrature scarne e in low-fi, tiene banco con una sceneggiatura ricca di dialoghi di spessore, grazie alla quale il regista riesce a far affiorare emozioni, dubbi, rancori e ironie di un popolo dalla democrazia giovane. La narrazione per mezzo della “memoria retroattiva” di chi visse i giorni drammatici della caduta del regime, si lega all’interpretazione delle responsabilità, in un sistema dove classe politica, servizi segreti e tecnocrazia economica erano legati da un intreccio indissolubile. Le risposte mancate o tendenziose dell’intellighenzia romena nei confronti degli interrogativi della popolazione, le prove inquinate o distrutte di proposito, l’accesso condizionato agli archivi segreti di Stato, rendono la ricostruzione dei fatti un’impresa ardua.

La pellicola mette in luce un sentimento cardine della Romania post-sovietica: lo smarrimento. In quei giorni tumultuosi del dicembre 1989 la popolazione percepiva con una certa angoscia il crollo dell’apparato statale, unico vero punto di riferimento dei romeni per quasi mezzo secolo. Negli anni a venire i documenti ufficiali, per lo più frutto della palingenesi sociale voluta durante il comunismo, venivano frammentati in diversi archivi ed erano trasportati segretamente; le condanne politiche erano sommarie e grottesche, la Securitate continuava a perpetuare la sua sfera di influenza su tutti i piani della vita sociale.

Questo ha evidentemente impedito un certo spirito solidaristico tra coloro che hanno il compito di ricostruire la verità. Con il pesante fardello del passato la Romania continuerà a doversi confrontare, ma senza scordarsi di guardare avanti: il film si chiude con una telefonata in diretta di una giovane telespettatrice, che rivela: “fuori nevica, come una volta, siate felici per questa neve, perché domani sarà di nuovo tutto fango”.

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