di Giuseppe Mancini
Il ministro degli esteri Davutoğlu lo ha annunciato ufficialmente: la Turchia si candiderà per il biennio 2015-2016 – le rivali, Spagna e Nuova Zelanda – come membro a rotazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu; una mossa attesa, una riaffermazione delle ambizioni globali di Ankara: una scommessa rischiosa per una ricandidatura che arriva immediatamente dopo l’esperienza del 2009-2010, produttiva ma controversa a causa della mediazione turco-brasiliana sul nucleare iraniano. Nel comunicato ministeriale, le motivazioni spaziano dall’immancabile evocazione della pace internazionale e dei diritti umani al ruolo di garante nei processi di cambiamento politico nel Mediterraneo, dall’imprescindibile centralità nel dialogo tra culture ai successi della sua diplomazia “visionaria e multi-dimensionale” come fattore stabilizzante e di aggregatore regionale (nei Balcani, in Asia centrale, nel Caucaso, nel Levante). La Turchia come “paese saggio”, in grado di dare buoni consigli a tutti.
“La nostra politica degli ‘zero problemi coi vicini’ e i nostri sforzi nell’incoraggiare la cooperazione e il dialogo internazionale sono tra gli elementi primari della nostra visione, che punta a creare un clima di armonia e prosperità in grado di rendere permanenti la sicurezza e la pace”. Insomma, niente guerre umanitarie o assassinii mirati. In più, il comunicato ufficiale ribadisce – per i distratti – che le ambizioni della Turchia sono non solo regionali ma globali, “dai Caraibi alle isole del Pacifico”: e rivendica un sostegno sempre più deciso e robusto ai paesi in via di sviluppo (lo sviluppo come precondizione per la sicurezza) anche in virtù di una spettacolare crescita economica, l’interesse in sede Onu per i temi globali (dalla lotta al terrorismo al clima), la partecipazione alle missioni di pace e di nation-building – “sulla base del principio di indivisibilità di pace, sicurezza e prosperità”. E Davutoğlu, in una recente intervista, è stato particolarmente esplicito nel tracciare le caratteristiche del mondo che ha in mente la Turchia: “non vogliamo un mondo politicamente gerarchico […], vogliamo un mondo con più partecipazione, più multilateralismo, più rappresentazione”.
Entrando maggiormente nei dettagli, Istanbul negli ultimi anni – in effetti, specialmente nelle ultime settimane – ha assunto una visibilissima centralità di promotrice delle organizzazioni internazionali: ha ospitato dal 9 al 13 maggio il Summit dei paesi meno sviluppati, proponendo un radicale ripensamento dell’approccio del Nord del mondo; ha inaugurato, proprio in quei giorni, l’ufficio regionale dell’Unfpa (l’agenzia dell’Onu che si occupa di assistenza sanitaria, uguali opportunità e diritti umani nei paesi del terzo mondo); ospita i segretariati del Consiglio di cooperazione turca (tra i paesi turcofoni dell’Asia centrale) e dell’Organizzazione per la cooperazione economica nel mar Nero; accoglie regolarmente vertici internazionali ai massimi livelli. In più, la Turchia è co-fondatrice insieme alla Spagna dell’Alleanza delle civiltà, che ha l’obiettivo di superare il clima di reciproca diffidenza – a volte di odio malcelato – che si è diffuso dopo l’11 settembre; e ha soprattutto un cospicuo capitale di voti (151), ottenuti nel tentativo vittorioso per il 2009-2010, su cui costruire il nuovo assalto al Consiglio di sicurezza: il consenso internazionale sembra addirittura crescente, ma a volte chi ambisce a cambiare le regole del gioco rischia di scontrarsi con le forze della conservazione e con spiacevoli sorprese.
(pubblicato su il futurista il 28 maggio 2011)