TURCHIA: La censura di Erdoğan. Polizia contro il quotidiano Zaman

TURCHIA: La censura di Erdoğan. Polizia contro il quotidiano Zaman

L’assalto al quotidiano Zaman

Le autorità turche hanno fatto irruzione nella sede del quotidiano Zaman a Istanbul. Fuori dall’edificio venerdì 4 marzo si erano già radunate centinaia di persone quasi a formare un cordone umano in difesa del giornale. Con le sue 650mila copie, Zaman è il quotidiano più venduto in Turchia e anche il principale organo di stampa che si oppone a Erdoğan e al governo. “Giù le mani dal mio giornale”, “La stampa libera non può essere messa a tacere” sono alcuni degli striscioni e degli slogan dei manifestanti. Per entrare nell’edificio, la polizia ha tenuto a distanza i manifestanti con proiettili di plastica, gas lacrimogeni e getti d’acqua.

La protesta pacifica era iniziata non appena il tribunale di Istanbul aveva messo sotto amministrazione fiduciaria il Feza Media Group, che oltre a Zaman comprende la sua versione in inglese Today’s Zaman e l’agenzia di stampa Cihan. Da venerdì il giornale di fatto è controllato dalle autorità. Proprio come in passato, potranno modificare la linea editoriale, licenziare i giornalisti più scomodi e recalcitranti, insomma mettere a tacere un pezzo importante della stampa turca non allineata ai desideri del governo.

Tre anni di scontro con Gülen

Perché non è la prima volta. Nel dicembre 2014 Erdoğan aveva lanciato una maxi-operazione di polizia contro i media legati al movimento Hizmet di Fethüllah Gülen. In quell’occasione erano state arrestate 23 persone, quasi tutti giornalisti, in 13 città della Turchia, tra cui il caporedattore di Zaman Ekrem Dumanlı. Era l’inizio della controffensiva di Erdoğan, la resa dei conti con Gülen. Il leader di Hizmet era stato fin dal 2002 un fedele alleato di Erdoğan. Ma alla fine del 2013, dietro la tangentopoli turca che aveva colpito duramente molti esponenti del governo e lo stesso Erdoğan, all’epoca premier, pare ci fosse proprio lo zampino di Gülen.

Da allora lo scontro si è trascinato a volte in modo più sotterraneo, altre volte con avvenimenti ben più eclatanti, ma senza esclusione di colpi. Erdoğan ha continuato nella sua opera di smantellamento della rete di Gülen (definita “uno Stato parallelo”), colpendo aziende e banche a lui vicine spesso con lo strumento dell’amministrazione fiduciaria. L’ultimo colpo grosso risale a settembre scorso, quando le autorità avevano preso il controllo del gruppo Koza Ipek, che controlla il quotidiano Bugun e le emittenti Bugun TV e Kanalturk TV. Ma in quell’occasione la campagna anti-Gülen aveva fatto registrare un salto di qualità: l’accusa è diventata terrorismo, senza mezzi termini. Da allora, ogni giornalista in Turchia sa che i suoi articoli, se non graditi al regime, gli possono costare davvero caro. Un clima di intimidazione costante degno dei peggiori regimi autoritari, non certo di una repubblica che potrebbe entrare a far parte dell’Unione Europea.

Da Usa e Ue solo silenzio

Il bavaglio alla libera stampa va comunque ben oltre lo smantellamento della rete di Gülen. Basta ricordare cosa è successo a Can Dündar e Erdem Gül del quotidiano Cumhuriyet, finiti per mesi dietro le sbarre per aver pubblicato un video che prova il coinvolgimento dei servizi segreti turchi nel traffico di armi verso la Siria. Quando poche settimane fa la Corte costituzionale li ha rimessi in libertà (senza far cadere l’accusa), Erdoğan non ha tardato a far sapere che non rispetta tale sentenza.

Gli alleati e i paesi che più potrebbero avere influenza sulla Turchia? Non pervenuti. La requisizione di Zaman ha costretto il dipartimento di Stato Usa a rilasciare una nota, ma tutt’altro che di dura condanna: il fatto è semplicemente definito “preoccupante”. Idem l’Ue, più preoccupata di dare miliardi di euro al governo turco per bloccare i flussi migratori che di salvaguardare la libertà di stampa.

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Chi è Lorenzo Marinone

Giornalista, è stato analista Medio Oriente e Nord Africa al Centro Studi Internazionali. Master in Peacekeeping and Security Studies a RomaTre. Per East Journal scrive di movimenti politici di estrema destra.

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