Egidio Ivetic
I Balcani dopo i Balcani. Eredità e identità
Salerno Editrice, Roma 2015, € 8.90
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Ancora i Balcani? La domanda viene quasi d’istinto: dopo i parossismi degli anni novanta di Jugoslavia (soprattutto) ed Albania e la crisi finanziaria greca di questi anni, il silenzio è sceso sull’area. Certo, ci sono i flussi dei profughi che dalle isole greche risalgono fino alla Slovenia, ma per il resto l’attenzione mediatica viene oggi prepotentemente richiamata in altre aree del pianeta. Insomma sembra che i Balcani abbiano smesso di produrre storia, parafrasando Churchill. Almeno per ora.
Tuttavia questa quiete è propizia per una riflessione su “eredità e identità” di quest’area, come fa nel suo (fin troppo agile) lavoro l’autore, docente di storia dell’Europa orientale a Padova. La complessità è il fil rouge che ne connota la storia a partire perfino dalla denominazione nel tempo: Turchia europea, Balcani, Europa sud-orientale. La complicatezza riaffiora anche negli aspetti geologici e topografici mentre dal punto di vista storico le specificità di quest’area vanno cercate nell’alto Medioevo, quando la slavizzazione rompe con il mondo greco e romano pur non creando omogeneità. Sono piuttosto gli ottomani (paradossalmente) a creare omogeneità ed identità dal Trecento ai primi del secolo scorso.
Ma la complessità permane nella stratificazione delle cinque civiltà che il geografo serbo Jovan Cvijic identifica nella tradizione bizantina, nell’islam ottomano, nelle città di tipo italiano in Dalmazia, nella civiltà centroeuropea di impianto ungherese ed asburgico, nella dura civiltà patriarcale arroccata nelle montagne dinariche.
Con l’Ottocento si avvia la deottomanizzazione che si nutrirà di speranze illiristiche e nazionalistiche e che si concluderà con le guerre balcaniche del 1912-1913. La modernità connota l’intermezzo tra le due guerre, ma è una modernità zoppa, fatta di parlamentarismi di breve durata, di colpi di Stato, di regimi autoritari e di dittature rozze.
Il comunismo accelererà – a suo modo – la modernizzazione, sia pure moltiplicandosi in quattro diversi modelli: jugoslavo, bulgaro, romeno, albanese. Soprattutto nella Jugoslavia titoista, gli anni sessanta e settanta portarono il consenso ai massimi livelli, anche se la dissoluzione fa capolino già dall’86 producendo ben quattro guerre e la gemmazione di sette Stati. Ivetic nota che l’Europa sud-orientale è oggi l’area più frammentata del continente, divisa com’è in dodici Stati, spesso minimi e fragili. Modello e tutore, per così dire, è qui oggi l’Unione Europea, che propone valori e parametri nonché meccanismi e progetti di stabilizzazione e cooperazione. Ma che non manca di produrre anche delusioni, dato che, comunque, l’Europa sud-orientale rimane pur sempre una Europa laterale se non marginale. Mentre si fanno avanti altri giocatori interessati, come la Russia putiniana, la Turchia delle ambizioni neo-ottomane (come dice l’intellettuale turco Ilber Ortayli), i ricchi Stati arabi del Golfo (specie in Bosnia).
La sensazione di essere periferia quindi resiste, il nazionale non va oltre sé stesso e la sua rassicurante e microlocalistica filosofia della palanka, mentre – sostiene l’autore – occorrerebbe ripensare il passato, anzi i tanti (troppi?) passati elaborando una cultura che sappia accettare la propria storia, come fecero scrittori del calibro di Ivo Andric e Mesa Selimovic. Forse non a caso entrambi bosniaci.