IRAN: Ciò che l’Accordo non dice

Cosa succederà dopo l’accordo sul nucleare iraniano? Per gli entusiasti basterà una sola firma vergata in un elegante palazzo viennese a risolvere tutte le tensioni della regione. Ma stando ai pessimisti, l’accordo può trasformarsi in un game-changer in negativo e portare più destabilizzazione. Il commento di Eugenio Dacrema.

di Eugenio Dacrema

Una delle cose che saltano all’occhio leggendo dell’accordo sul nucleare iraniano è la versione abbreviata con il quale spesso viene riportato: l’Accordo. Articolo determinativo e, ogni tanto, perfino la “A” maiuscola per esaltarne l’importanza e, in un certo senso, anche la definitiva completezza.

Se da un lato questa visione è certamente utile per poter “vendere” l’accordo agli oppositori e alle opinioni pubbliche, dall’altra rischia di avere effetti distorcenti riguardo a ciò che “l’Accordo” in questione contiene.

Nonostante infatti l’importanza multidimensionale (politica, economica, militare, di sicurezza ecc.) che gli viene attribuita è bene ricordare fin subito che tutto questo approccio si basa in gran parte su presupposti non legati a ciò che “l’Accordo” contiene, ma considerate come impliciti agli effetti che esso farà scaturire. A sentire le voci più entusiaste – di solito i rappresentanti delle cancellerie hanno portato a termine le trattative – la firma di Vienna comporterà una riconsiderazione globale della posizione dell’Iran nel mondo e soprattutto nella regione mediorientale. In Iraq, Siria, Yemen, Libano e in tutti i teatri in cui l’Iran è più o meno coinvolto in opposizione ad altre potenze regionali (di solito alleati dell’Occidente) sarà molto più facile raggiungere un compromesso e una stabilizzazione. Questo perché secondo una certa scuola politico-economica detta dell’Economic Engagement (o Strategic Intedependence), un paese più integrato nel sistema economico globale vede decrescere i propri incentivi a destabilizzare e inimicarsi gli attori di quello stesso sistema. Forse il caso più famoso a supporto di questa tesi è quello avanzato da Kahler e Kastner nel 2006, nel quale dimostrarono, tra le altre cose, come attraverso politiche di apertura commerciale e finanziaria la Corea del Sud fosse riuscita a stabilire solide relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica e a ottenerne il riconoscimento diplomatico nonostante un passato di fortissime tensioni politico-militari.

Allo stesso tempo, altre voci come Schanzer e Dubowitz su Foreign Policy, o Aron Lund del Carnegie sembrano pensarla in modo diametralmente opposto. Schanzer sottolinea come in pochi mesi l’Iran avrà a disposizione 100 miliardi di dollari di depositi de-sanzionati di cui una parte cospicua potrebbe finire nelle tasche dei gruppi terroristici tradizionalmente sostenuti da Teheran. Non solo, la riammissione delle banche iraniane all’interno del sistema SWIFT – il sistema internazionale che connette i sistemi bancari di tutto il mondo – è in sé una mossa che contraddice le precedenti politiche dell’amministrazione americana. In questo caso, infatti, l’esclusione dell’Iran non era stata chiesta a causa del programma nucleare, bensì a causa delle attività terroristiche che, secondo il dipartimento di stato, Teheran finanziava attraverso il   sistema bancario internazionale. Riammettere l’Iran all’interno di questo sistema solamente in virtù della sua rinuncia al programma nucleare è di per sé una contraddizione e rappresenta l’implicita accettazione del fatto che il regime iraniano possa nuovamente utilizzare le proprie banche per sostenere organizzazioni ritenute terroristiche dagli Stati Uniti. “L’Accordo” dice infatti espressamente che una nuova esclusione delle banche iraniane dal sistema SWIFT comporterebbe automaticamente la venuta meno da parte dei contraenti occidentali alle clausole stipulate a Vienna, legittimando quindi Teheran a procedere col proprio programma nucleare.

Allo stesso modo Lund sottolinea come uno dei più grandi vincitori del “deal” sia il regime siriano di Bashar al-Assad, che attraverso il sostegno di un Iran rinforzato dalla fine delle sanzioni si ritroverebbe ad avere i mezzi per poter perpetuare la sua guerra contro l’opposizione interna ancora per molti anni, procrastinando quindi a tempo determinato una fine del conflitto che sembrava più a portata di mano con il visibile indebolimento del regime. Lo stato iraniano ha infatti devoluto al regime siriano circa 6 miliardi di dollari solo l’anno scorso. Difficile pensare che questo enorme investimento – specialmente per uno stato alle prese con le più opprimente sanzioni economiche della storia – verrà automaticamente defenestrato in nome di una maggiore interdipendenza con il resto del sistema internazionale nel lungo termine.

La verità è che entrambe le posizioni – quella degli entusiasti e quella dei pessimisti – contengono elementi di verità. E dicendo questo non si desidera certamente semplificare il tutto ricorrendo al vecchio e confortante detto de “la verità sta nel mezzo”. Al contrario, è proprio l’estrema complessità dell’intera struttura regionale del Medio Oriente che ci impone di abbandonare l’illusione che un solo accordo, una sola firma vergata in un elegante palazzo viennese, possa, come sostengono gli entusiasti, risolvere tutte le tensioni della regione, oppure, stando a sentire i pessimisti, trasformarsi in un game-changer in negativo portando ancora più tensione e destabilizzazione. La complessità di ogni singolo teatro in cui l’Iran, i suoi alleati e i suoi rivali si sono mossi in questi anni rende ogni caso un discorso a se stante in cui il sopravvenuto accordo è solo una di molte variabili determinanti. In Yemen, ad esempio, aumentare ulteriormente il sostegno agli Houthi che affrontano ora direttamente l’aeronautica saudita potrebbe rivelarsi un gioco molto pericoloso perché implicherebbe uno scontro sostanzialmente diretto con Riyadh e coi suoi alleati. Uno scontro che avverrebbe proprio sulle coste di quel Golfo attraverso cui finalmente il greggio iraniano potrebbe ricominciare a passare liberamente nei prossimi mesi. È facile quindi pensare come una tale avventura costituirebbe un rischio inutilmente alto in questa fase, a cui Teheran potrebbe facilmente preferire un compromesso.

Nel caso siriano, invece, niente di ciò che è contenuto nell’Accordo sembra poter portare un sostanziale cambiamento della situazione, né da un punto di vista positivo, né da uno negativo. Aumentando il proprio sostegno al regime siriano l’Iran certamente non avrà il problema di “inimicarsi gli altri attori del sistema internazionali e possibili futuri partner economici”, i quali oggi sono molto più terrorizzati dalle avanzate dell’ISIS – perlopiù identificato dai media come parte dell’opposizione – che non da quelle del regime. D’altra parte, l’aumento delle risorse a disposizione per il sostegno del regime di Assad difficilmente diventerebbe un game-changer. I supporter dell’opposizione, in primis Qatar, Turchia e Arabia Saudita, non sono certo stati dalle limitate risorse economiche ed è difficile pensare che non potrebbero far fronte a un maggiore impegno iraniano aumentando a propria volta il proprio sostegno all’opposizione. Il risultato finale sarebbe un nuovo equilibrio di forze ma stavolta raggiunto con l’immissione di ancora più soldi, armi e capacità distruttive all’interno del conflitto, il quale avrebbe ora tutte le risorse per poter durare ancora molti anni. Insomma, nessuno degli attori in campo ne verrebbe particolarmente avvantaggiato danneggiato a parte, ovviamente, i civili siriani.

La verità è che l’esistenza di visioni così differenti e allo stesso tempo così parimenti fondate sullo storico accordo è determinata da un semplice fatto: “l’Accordo” riguarda solo e unicamente il tema delle tecnologie nucleari e il processo dell’arricchimento dell’uranio. Nient’altro.

Niente Libano, niente Yemen, niente Iraq e, soprattutto, niente Siria. La semplice verità è che la fine delle sanzioni ha cambiato certamente le forze in campo e le interconnessioni di interessi che caratterizzeranno nel medio termine il confronto tra Iran e Arabia Saudita (e i rispettivi alleati). Come questi cambiamenti agiranno all’interno dei singoli scenari è però impossibile da determinare, proprio perché nessun accordo né esplicito né implicito esiste a riguardo. Alcuni potrebbero evolvere verso il compromesso e la stabilizzazione, altri in direzione dimetricamente opposta. Ma, in tutti i casi, alla fine è proprio questo l’elemento fondamentale da tenere a mente quando parliamo de “l’Accordo” e dei suoi effetti sul Medio Oriente. Quello che importa non è infatti quello che vi è scritto riguardo al futuro riassetto degli equilibri nella regione, ma quello che non vi è scritto. Ovvero quasi niente. 

Foto: Mohammadali F., Flickr

Eugenio Dacrema è dottorando in Studi Internazionali presso l’Università di Trento e ricercatore associato ISPI

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