TURCHIA: Schiacciata tra Teheran e Riyad, come uscire dal'isolamento?

Non è un momento semplice per la politica estera turca, e per capirlo basta prendere in considerazione due date, piuttosto ravvicinate tra loro: il 2 marzo scorso e il 7 aprile. La prima è quella della visita di Erdoğan a Riyad, nella quale ha incontrato il nuovo re saudita Salman. La seconda è quella del viaggio del presidente turco a Teheran, poche settimane fa. Il fatto che in pochissimi giorni Erdoğan sia corso da una capitale all’altra delle due potenze rivali, impegnate in diversi scontri a distanza per il controllo del Medio Oriente, potrebbe essere considerato normale, o addirittura positivo, un segno di centralità diplomatica: magari una versione turca della “shuttle diplomacy” con la quale Henry Kissinger faceva la spola tra le capitali della regione, riuscendo nell’impresa di espandere l’influenza locale degli Usa. Purtroppo per Erdoğan, la realtà è diversa, e il suo affannarsi tra Riyad e Teheran è emblematico del momento di stallo – forse di imbarazzo – che sta vivendo la politica estera turca in questa fase, impegnata in un difficile sforzo di tutelare gli interessi nazionali nel bel mezzo di una lotta regionale nella quale rischia di essere risucchiata.

Eppure, solo cinque anni fa, la situazione era completamente diversa. Grazie a una vigorosa crescita economica, e con una nuova strategia disegnata dall’attuale primo ministro Davutoğlu – condita con abbondanti dosi di retorica neottomana – la Turchia sembrava a un passo dal coronare il sogno di diventare una vera potenza emergente. La chiave del successo sembrava essere proprio la dottrina Davutoğlu, per la quale il paese doveva abbandonare il vecchio ruolo di ponte tra l’Europa e il Medio Oriente per proiettarsi in modo autonomo su tutti gli scenari vicini, scegliendo di agire con “Profondità strategica” era proprio questo il titolo del libro dell’ex ministro degli Esteri che gettò le basi della nuova politica.

Il picco di successo di questa strategia arrivò proprio nel 2010, il momento in cui la Turchia poteva permettersi di agire come mediatore nei confronti di Teheran all’interno dei negoziati sul nucleare iraniano. Poi, improvvisamente, le Primavere Arabe hanno sconvolto gli equilibri della regione. E la Turchia si è schierata dalla parte del cambiamento, intravedendo uno spazio di manovra: è stata questa – oltre che l’affinità ideologica – la ragione del deciso sostegno all’Islam politico, e alla Fratellanza Musulmana in particolare. Una scommessa che Erdoğan e Davutoğlu, però, hanno pagato a caro prezzo: dopo la deposizione del presidente egiziano Morsi per opera del generale Al Sisi – spalleggiato dall’Arabia Saudita – e con il perdurare dello stallo in Siria, la Turchia si è ritrovata in una posizione di netto isolamento. Da Istanbul, i governanti dell’AKP hanno dovuto assistere all’espansione dell’influenza iraniana nel vuoto politico creato dalle Primavere nella regione, scontrandosi duramente anche con l’Arabia Saudita, che Davutoğlu è arrivato ad accusare di collusione con l’Occidente per «mantenere il Medio Oriente sotto il giogo dell’oppressione».

Erdoğan ha compreso che la Turchia del 2015 ha bisogno di uscire dallo stallo, anche a causa di un momento economico negativo, e per questo è volato a Riyad da Re Salman. La visita è sembrata andare bene: pochi giorni dopo il presidente turco ha espresso il sostegno del suo paese all’operazione militare saudita contro i ribelli houti – e filo sciiti – in Yemen, che Riyad considera praticamente agenti al servizio dell’Iran. Erdoğan, sicuramente con grande soddisfazione di re Salman, si è poi lanciato anche in una dura tirata contro l’Iran, che ha accusato di agire solo per «tentare di instaurare un dominio sulla regione». Con queste esternazioni filo saudite il presidente turco non ha cercato solo di uscire dall’isolamento diplomatico ma ha anche – molto pragmaticamente – tenuto in conto l’esigenza di non privarsi dei generosi sussidi che i sauditi possono assicurare alla non più brillantissima economia turca.

Purtroppo per re Salman, però, il suo progetto di far entrare la Turchia in un “asse sunnita” da usare per contrastare l’influenza dell’Iran nella regione non è facile da attuare: per realizzarlo, il monarca saudita ha bisogno di un riavvicinamento tra Egitto e Turchia, due stati che per ora non sono affatto disposti ad appianare le loro pesanti divergenze. In più, per quanto riguarda l’Iran, gli interessi di Turchia e Arabia Saudita sono profondamente diversi. Erdoğan, nei fatti, non condivide molto il senso di panico di Riyad per “l’accerchiamento sciita”, e le sue dichiarazioni seguite alla visita in Iran di poche settimane fa lo dimostrano. Dopo che le sue tirate anti Teheran avevano messo in pericolo il viaggio stesso, il presidente turco – di ritorno dalla capitale iraniana – ha assicurato che la Turchia opererà per ridurre le distanze tra sunniti e sciiti, ed evitare uno scontro settario in Medio Oriente. Anche in questo caso, il leader dell’AKP fa una valutazione sia politica sia economica. Nel primo caso, è disposto a riconoscere che l’Iran ha diritto di giocare un ruolo importante in Medio Oriente: non a caso nella teoria di Davutoğlu l’Iran – con Turchia ed Egitto – è considerato uno dei tre lati di un triangolo regionale sul quale costruire un futuro ordine stabile. Poi, Erdoğan sa bene che con la fine delle sanzioni verso Teheran l’economia iraniana potrebbe andare incontro ad anni di crescita impetuosa, e la Turchia non può farsi tagliare fuori da questo boom. Per questo si è speso per far firmare agli iraniani un accordo, che entrerà in vigore tra pochi mesi, grazie al quale saranno ridotte le barriere doganali trai due paesi.

Come fare a coniugare queste esigenze contrapposte? L’ambizione di Erdoğan è sicuramente quella di agire da mediatore, ma data l’asprezza dello scontro in corso – e il suo fondamentale interesse nel non allontanarsi troppo da nessuno dei contendenti – la partita non è facile da giocare.

Gli ultimi eventi, però, potrebbero dare una mano alla Turchia. Il 22 aprile scorso l’Arabia Saudita ha interrotto l’operazione Decisive Storm contro gli houti in Yemen. Da Riyad sono arrivati segnali contrastanti: da una parte è stata esternata la volontà di cercare una soluzione politica alla crisi, dall’altra si è dato il via a una nuova operazione – chiamata Restoration of Hope – che secondo i sauditi potrebbe anche includere l’impiego di truppe di terra (e comunque dopo l’annunciata fine di Decisive Storm sono stati diversi i raid aerei sauditi contro le postazioni degli houti). Sembra che per fermare – almeno “ufficialmente” – l’operazione, dai risultati strategici non certo entusiasmanti, ma segnata invece da un bilancio pesante di vittime civili, siano state importanti le pressioni degli Stati Uniti. In questo momento, infatti, con i negoziati sul nucleare iraniano che si avviano verso la fase decisiva di giugno, per Washington è importante evitare che le tensioni tra Arabia Saudita e Iran degenerino in uno scontro aperto. E la volontà degli Usa di favorire una mediazione tra i duellanti regionali potrebbe agevolare gli interessi turchi.

Ci si deve aspettare una più stretta cooperazione strategica tra Turchia e Stati Uniti, per i prossimi tempi? Il presidente turco si è dimostrato per Obama, nel corso degli anni, un partner sempre più impresentabile – a causa delle sue tendenze autoritarie – e inaffidabile – vista la disinvoltura della sua politica estera. La porta, per lui, non è però affatto chiusa, come dimostra la recente volontà dell’Amministrazione Usa di continuare a non riconoscere apertamente il genocidio armeno.

Di certo, la strada della Turchia di Erdoğan per uscire dall’isolamento passa anche per la Siria. Il presidente turco e il nuovo re saudita hanno iniziato a mettere da parte le rivalità che li hanno visti appoggiare fazioni diverse dei ribelli anti Assad – e in questo aiuta sicuramente l’ammorbidimento della retorica anti Fratellanza Musulmana da parte di Riyad. Ma la distanza con l’Iran, che continua a sostenere Assad, è ancora enorme. Dopo quattro anni di guerra, però, lo sforzo inizia a essere pesante per tutti. E magari nei prossimi mesi potrebbero arrivare svolte sorprendenti.

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