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SIRIA: Gli opposti interessi in campo e il successo della politica iraniana

«Quella che era una guerra in Siria con conseguenze regionali, si è trasformata in una guerra regionale, con un focus sulla Siria». Questa frase, tratta da un rapporto dell’International Crisis Group, spiega bene come il conflitto scoppiato nel 2011 si sia aggravato fino a diventare, secondo l’Onu, «la più grave crisi umanitaria dal 1945». La Siria è il campo di battaglia di una proxy war, un conflitto a distanza in cui, schierati dalla parte di Assad o a sostegno dell’opposizione, gli stati della regione cercano di espandere la loro influenza nel Medio Oriente.

Il primo a muoversi è l’Iran, che non può permettersi di perdere il più solido alleato locale, e inizia a sostenere Assad quando le proteste contro di lui sono ancora pacifiche. L’Arabia Saudita, il più grande rivale regionale del regime sciita degli ayatollah, all’inizio chiede ad Assad di aprirsi al confronto. Il rais di Damasco sceglie invece la strada della repressione violenta, con l’assenso dell’Iran. A quel punto, l’Arabia Saudita caccia l’ambasciatore siriano e inizia ad armare l’opposizione, imitata subito dopo dal Qatar.

Tra i due stati del Golfo si crea un’accesa competizione, che favorisce la radicalizzazione del conflitto. Qatar e Arabia Saudita hanno priorità molto diverse: l’Emirato di Doha vuole diventare una vera potenza locale, e anche per questo sostiene le primavere arabe e l’Islam politico, e quindi la Fratellanza Musulmana, soprattutto in Egitto. I sauditi, invece, lottano per mantenere lo status quo nella regione, e considerano la Fratellanza un pericolo mortale. I due paesi fanno quindi a gara per rifornire i loro interlocutori nell’opposizione siriana. Questo fa affluire una gran quantità di armi e denaro, e scatena la competizione tra i gruppi di combattenti per accreditarsi come i più meritevoli di finanziamento. Finiscono per essere armate, così, anche fazioni apertamente radicali. Il Qatar, ad esempio, è accusato di aver sostenuto, tramite intermediari, il Fronte Al Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Nel frattempo, i gruppi “moderati” e laici dell’opposizione sono appoggiati molto tiepidamente dall’Occidente.

Nel 2013, a due anni dall’inizio del conflitto, Assad sembra perdere terreno. L’Iran, quindi, convince i suoi alleati libanesi di Hezbollah a formare e armare milizie per sostenerlo. Poi, Tehran schiera le sue Forze Quds, il corpo d’élite della Guardie Rivoluzionarie, guidato dal potente generale Qassem Suleimani. Il loro compito è addestrare e riorganizzare l’esercito del regime, che riesce a recuperare posizioni.

Il 2013 è anche l’anno del confronto tra Stati Uniti e Russia. Obama è sul punto di intervenire militarmente dopo le prove di attacchi chimici contro i civili siriani. Putin, che nel 2012 aveva già dato un notevole aiuto al regime di Damasco – affossando con la Cina una risoluzione Onu che imponeva ad Assad una scadenza temporale per accettare un piano di pace – si offre di mediare per la consegna alle Nazioni Unite dell’arsenale chimico dell’esercito “regolare” siriano. In questo modo Obama “salva le apparenze”, evitando di dover iniziare una difficile e rischiosa operazione militare. La Russia, invece, riesce a difendere un regime alleato, e torna a far pesare il suo ruolo nello scenario internazionale per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda.

Quando l’Isis inizia a diventare una seria minaccia, gli Stati Uniti formano una coalizione internazionale per bombardare le posizioni dello Stato Islamico, che nel frattempo ha fatto sconfinare il conflitto siriano anche in Iraq. Al loro fianco, oltre a diversi paesi occidentali, ci sono anche Arabia Saudita, Giordania ed Emirati Arabi Uniti, ormai l’alleato locale di cui gli Usa si fidano di più.
Proprio il dilagare dell’Isis mette sotto i riflettori il ruolo di un’altra potenza locale, la Turchia. Che ha da subito finanziato e protetto l’Esercito Siriano Libero, ma è stata anche accusata di aver favorito lo Stato Islamico, con l’obiettivo di ostacolare la nascita di un’entità territoriale curda nel nord della Siria. Ora Erdogan e l’Amministrazione Obama iniziano a cooperare per addestrare milizie – anche curde –che combatteranno contro l’Isis. Ma le differenze rimangono: Ankara pone sempre come priorità la destituzione di Assad. Mentre gli Stati Uniti sembrano ormai intenzionati a negoziare una via d’uscita col regime di Damasco.

A quattro anni dall’inizio della guerra, quindi, la situazione sembra sempre più favorevole ad Assad, che in pochi ormai puntano a escludere dalla “soluzione politica” del conflitto. Un risultato notevole per l’Iran, intervenuto nella guerra con uno sforzo ben organizzato, che ha sorpreso gli avversari, in preda alle loro contraddizioni. Intanto, il confronto tra le due fazioni continua, sulle macerie di un paese distrutto.

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