ELEZIONI ISRAELE/2: Netanyahu abbandonato dalla sua "Nazione ebraica"?

Il prossimo 17 marzo gli israeliani sono chiamati alle urne, con due anni di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato del premier Benjamin Netanyahu. Alla radice di queste elezioni anticipate c’è una crisi che ha portato, nel novembre 2014, alla destituzione di due ministri centrali, senza i quali non esiste più una maggioranza di governo: Yair Lapid, del partito Yesh Atid (“C’è un futuro”) ed ex ministro alle Finanze; Tzipi Livni, di Hatnua (“Movimento”), ex ministro alla Giustizia e ora alleata con i laburisti di Isaac Herzog, già all’opposizione.

Perché anticipare le elezioni? Le critiche alla Jewish State Bill

Israele non ha una vera e propria Costituzione ma il suo ordinamento prevede alcune “leggi fondamentali” in cima alla gerarchia delle norme. Proprio nella modifica della legge fondamentale sullo stato sta l’elemento che ha fatto esplodere una situazione evidentemente già molto tesa: il governo ha infatti approvato, con una maggioranza di due terzi, le bozze della Jewish State Bill, le quali hanno scatenato polemiche non solo all’interno del governo ma anche nel partito di Netanyahu.

La controversia principale si è centrata sul titolo della proposta di legge, che definisce Israele come “Stato della nazione ebraica”. I membri del governo che hanno votato a sfavore, tra cui i deposti Lapid e Livni, hanno aspramente criticato questa definizione asserendo che avrebbe minato i fragili rapporti con la minoranza araba residente entro i confini nazionali, circa il 20% della popolazione. Netanyahu, nel discorso introduttivo alla votazione, si è in effetti chiaramente schierato parlando dei «molti che sfidano il carattere israeliano di patria degli ebrei. I palestinesi si rifiutano di riconoscerlo e ci sono opposizioni anche interne». Né Lapid né Livni si sono risparmiati in alcun modo di esprimere la propria insoddisfazione: per il primo il premier è «un irresponsabile che preferisce accordarsi con gli ultraortodossi rispetto agli interessi degli israeliani» per questo, secondo Livni, alle prossime elezioni il popolo «sceglierà se Israele sarà uno stato sionista o uno estremista».

Quali prospettive per la prossima Knesset?

Fare pronostici è tutt’altro che semplice. Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati da Haaretz le due fazioni con maggiori probabilità di vittoria sono quella del Likud (“Consolidamento”), partito del premier uscente che potrebbe ottenere 21 seggi su 120, e l’Unione Sionista, capeggiata dalla già citata Tzipi Livni e da Isaac Herzog, per la quale si prevedono 25 seggi. Secondo il sistema elettorale israeliano, però, non basta avere il maggior numero di voti per avere l’incarico di formare un governo: una volta conteggiate le schede, infatti, sono i leader dei partiti stessi che indicano chi, fra loro, avrebbe maggiori chance di formare un esecutivo. Due fra i partiti e le coalizioni da tenere particolarmente d’occhio, in questo contesto, sono il Kulanu (“Tutti noi”), che potrebbe ottenere 9 seggi, e la Joint List che ne avrebbe 13.

Il Kulanu è un partito centrista nato per iniziativa di Moshe Kalhon, uscito dal partito di Netanyahu lo scorso anno ma, a sua detta, «col cuore ancora di Likud». Proprio il premier, cosciente di non poter avere una maggioranza senza questo partito, gli ha promesso lo scranno di ministro delle Finanze, in caso di vittoria alle prossime elezioni. La risposta di Kalhon è stata lapidaria: «Netanyahu fa promesse solo per disattenderle».

La Joint List è invece una lista socialista che, per la prima volta, unisce tutti i partiti arabi israeliani. Al suo interno è compreso il partito Balad, antisionista, presenza che renderà difficile un’alleanza con l’Unione Sionista e, quindi, andrebbe a intralciare il percorso di Herzog nella formazione di un governo.

Sicurezza e unità nazionale fra i temi principali della campagna elettorale

In questi ultimi mesi Netanyahu ha premuto molto sul tema della sicurezza nazionale, arrivando a tenere un discorso in proposito anche alla Casa Bianca, lo scorso marzo. Il premier israeliano è fortemente contrario a ogni forma di accordo sul nucleare iraniano e spinge affinché si spendano più risorse contro chi minaccia la libertà della nazione: «I più grandi pericoli per il nostro mondo sono l’Islam combattente (quindi Hamas, Hezbollah e Stato Islamico, n.d.r.) e il nucleare – ha detto a Washington – ma so che Israele non rimarrà solo, che voi americani siete dalla nostra parte».

Dall’altro lato, Herzog e Livni vogliono arginare le derive militariste che hanno finora caratterizzato la politica nazionale: nelle loro parole gli israeliani sono un popolo che ha bisogno di essere unito, non ulteriormente frammentato, motivo per cui promuovono un dialogo costruttivo con le autorità palestinesi e incentrano la propria campagna elettorale sui temi sociali interni al Paese, come il carovita e la disoccupazione giovanile, che sembrano preoccupare maggiornemente la popolazione.

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