Lettere dalla Kirghisia

“Un paese straordinario dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un’utopia, ma un bene reale e comune. Nel paese di Kirghisia tutti lavorano solo 3 ore al giorno: il resto del tempo è dedicato a se stessi, all’amore, alla famiglia, ai figli, alla vita insomma. E chi vuole fare l’amore, porta in bella vista un piccolo fiore azzurro: così l’amore non genera ipocrisia, incomprensioni e imbarazzi”.

Così Silvano Agosti, nel suo Lettere dalla Kirghisia (edizioni L’immagine, 2004) raccontava il sogno di una società migliore. Un sogno europeo, per sonnambuli europei. La Kirghisia vera, quella delle cronache, ci racconta un’altra realtà. Quella di un Paese percorso da un’ondata di violenza inaudita che avrebbe già provocato almeno un centinaio di morti.

Il regime di Kurmanbek Bakiyev, al potere dal marzo 2005 dopo una serie di rivolte popolari, è andato progressivamente trasformandosi in una dittatura personale molto rigida. Le libertà democratiche precedenti, benché nate durante il fragile passaggio dal sovietismo all’indipendenza, sono state cancellate. L’opposizione è stata eliminata, anche fisicamente. I media indipendenti sono stati sistematicamente chiusi e i giornalisti arrestati. E pensare che a portare al potere Bakiyev è stata quella “rivoluzione dei tulipani“, simile alle analoghe di Georgia e Ucraina. La stagione delle rivoluzioni è ora definitivamente storia passata. I frutti tardivi del 1989 sono ormai tutti marciti. Perché?

Le chimere americane non hanno incantato a lungo i cittadini di quei Paesi, e l’occasione di una reale democratizzazione si è perduta. Resta da stabilire ora chi c’è dietro tanta violenza, dietro alle migliaia di dimostranti che hanno preso d’assalto i palazzi del potere costringendo Bakiyev alla fuga in elicottero. Il governo -ancora formalmente in carica- accusa l’opposizione e «forze straniere» di aver scatenato una rivolta.

Una rivolta dietro cui si sospetta ancora la mano del Cremlino, infastidito dalla base americana di Manas, di importanza strategica per l’approvvigionamento delle truppe in Afghanistan. Il regime di Bakiyev fu grassamente foraggiato da Washington purché tenesse aperta la base che i russi gli avevano ordinato, senza tanti giri di parole, di chiudere. Certamente la rivolta segna il malcontento per l’involuzione democratica subita dal Paese dal 2005. Quella che fino ad allora fu – per gli standard centroasiatici – un esempio di  libertà è andato via via uniformandosi ai modelli politici dei paesi circostanti: Uzbekistan, Tagikistan, Kazakhstan. E l’involuzione democratica ha comportato costi economici elevatissimi per un Paese privo di risorse naturali, che fonda la propria economia sugli scambi. Meno libertà significa meno commercio. E il prezzo è stato inevitabilmente pagato dalle fasce deboli della popolazione che oggi si sono rivoltate.

Un «colpo di stato con intervento straniero». Così Kurmanbek Bakiyev, presidente spodestato ma formalmente ancora in carica, ha definito gli avvenimenti degli ultimi giorni. A chi si riferiva? Ora, visto che mercoledì pomeriggio, quando gli scontri per le vie di Bishkek e intorno ai palazzi del potere erano ancora in corso, l’unico leader straniero che si è sentito in dovere di dire «noi non c’entriamo» è stato Vladimir Putin; visto che lo stesso Putin ha avuto già nella serata di mercoledì una conversazione telefonica con l’autoproclamata nuova premier kirghiza Roza Otunbayeva, de facto riconoscendone l’autorità; visti infine i comunicati con cui il governo provvisorio kirghizo sollecita l’«aiuto fraterno» della Russia e annuncia l’imminente invio di una delegazione a Mosca, parrebbe abbastanza chiaro quale sia la potenza esterna cui fa riferimento Bakiyev.
Il quale, peraltro, ha lasciato mercoledì sera la capitale rifugiandosi nei pressi della cittadina di Dzhalal-Abad (nel sud del paese) da dove, pur ammettendo di non avere più il controllo su polizia ed esercito, rifiuta tuttavia di dimettersi.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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