UNGHERIA: L’unicità del male e la banalità della polemica

Raramente manifestazioni dello Jobbik passano inosservate e ancor più raramente capita che siano immuni da violente critiche e ondate di indignazione. Eppure la marcia pacifica che una decina di giorni fa il partito di estrema destra magiaro – nei fatti e nei numeri seconda forza politica del paese – ha organizzato dall’ambasciata d’Israele fino alla rappresentanza diplomatica dell’Autorità nazionale palestinese è passata sotto silenzio.

Non si è trattato di un simbolico percorso volto ad avvicinare idealmente i due popoli in conflitto in spirito bipartisan. Basta leggere le parole con cui il leader Gábor Vona ha chiamato i ”suoi” a raccolta sulla pagina facebook personale: ”Basta Israele! Contro il genocidio in atto nella striscia di Gaza.” A corredo dell’iniziativa è stata lanciata una campagna di boicottaggio nei confronti di tutti i prodotti di provenienza israeliana con tanto di indicazione del relativo codice a barre per facilitare il consumatore nella scelta discriminante tra gli scaffali al supermercato. In più, nei prossimi giorni, lo Jobbik presenterà una proposta volta alla rottura delle relazioni diplomatiche con Tel-Aviv fino alla proclamazione di uno stato palestinese autonomo.

 Quando in Terra Santa le tensioni israelo-palestinesi prendono la forma del confronto bellico, dove inevitabilmente si sente tutto il peso della disparità tra truppe in sostanza paramilitari ed un esercito tra i più forti del pianeta, è facile che movimenti estremisti come lo Jobbik palesino posizioni catalogabili come anti-semite. In altri momenti di quiete e distrazione internazionale  gesti del genere non sarebbero passati inosservati attirando biasimo e condanne. In queste settimane invece la criminalizzazione di Israele è un sentimento pressoché unanimemente diffuso e la solidarietà espressa al popolo palestinese spesso è strumentale. Assistiamo pertanto a quel fenomeno ciclico molto comune che porta a considerare l’ebreo una volta vittima e una volta carnefice.

In virtù di questo capita che pure la collocazione di un monumento richiami l’attenzione sulla difesa della causa ebraica contro ogni tesi e atteggiamento negazionista o presunto tale. E’ il caso dell’opera scultorea commissionata in primavera dal governo ungherese per ricordare tutte le vittime dell’occupazione nazista che da marzo – mese  del settantesimo anniversario dell’invasione tedesca – ha innescato acerrime critiche. Per giorni a Budapest il sito di destinazione è rimasto presidiato da forze dell’ordine e dimostranti. Ora, dopo essere stato edificato nottetempo solo un paio di settimane fa, giace ancora senza un’ inaugurazione ufficiale.

Qualche dubbio sulla finalità elettoralistica di questa sorta di instant monument ci sarebbe. Così come magari si può discutere sulla bellezza del prodotto artistico o sulla scelta della location, in una Piazza della libertà (Szabadság tér) sempre più carica di simboli. Tuttavia le accuse rivolte al governo di offendere la memoria dell’Olocausto suonano come vagamente pretestuose. La tesi degli oppositori è: con una statua non si può deresponsabilizzare ex post l’Ungheria di Horthy “alleata” di Hitler.

Ciò che accomuna le iniziative dello Jobbik alla vicenda del nuovo monumento di Piazza della libertà è la tragicità dei fatti evocati ma anche l’unilateralità di come questi vengono percepiti dall’opinione pubblica. La polemica è il sale del dibattito politico ma se ad esserne oggetto è la complessità di situazioni di guerra presenti o passate c’è il serio rischio della semplificazione e quindi della banalizzazione. Ogni storia si espone ad interpretazioni incomplete. Anche nel nostro caso allora risulta incompleta la lettura di un conflitto, che ormai da più di mezzo secolo contrappone in medio oriente israeliani e palestinesi, senza considerare come la sicurezza di Israele sia perennemente minacciata e come di questo risenta la quotidianità di un intero popolo. Così come è incompleta un’analisi che non tenga conto della sostanziale impossibilità dei governi dell’epoca di opporsi al dilagare della Germania hitleriana senza lo spettro di disastri nazionali maggiori.

Non è certo compito di chi scrive ergersi a giudice dell’una e dell’altra parte per cercare di discernere il giusto. Ma si può sicuramente riflettere su di una cosa. Il volere dare a tutti i costi un colore politico al male nel tentativo di giustificarne l’origine, addirittura quantificandolo o misurandone dimensioni e portata, matura una convinzione sbagliata. Quella che ci sia un male tollerabile e un male intollerabile ovvero il germe di faziosità e di banale polemica.

 

Chi è Cristiano Preiner

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Un commento

  1. Riflessioni molto interessanti e personalmente condivisibili dalla prima all’ultima parola.
    Grazie.

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