CINA: Pechino, l'ultimo hutong

La millenaria Grande Muraglia, il fascino del Palazzo d’Estate e della Città Proibita che si affaccia sulla infinita Piazza Tienanmen, con al centro il mausoleo di Mao Tse Tung.

Nella capitale Pechino, così come in tutta la Cina, le celebri attrazioni storiche e naturalistiche conosciute in tutto il mondo, vanto e orgoglio del paese, sono innalzate a simbolo della grandezza, della potenza e della storia millenaria della nazione.

Tutto ciò che è funzionale a diffondere il nome della Grande Cina è preservato, valorizzato, sponsorizzato a fini turistici ed economici.

Una irrefrenabile ondata di modernità, uno tsunami affaristico-speculativo spazza via tutte le altre piccole realtà storiche e sociali, con tanti saluti a tradizioni secolari, architetture storiche, legami affettivi.

Una incredibile, variegata eredità culturale da proteggere e salvaguardare, così come i Panda a rischio estinzione della regione del Sichuan, non sembra interessare alle autorità cinesi, immolatesi in nome dell’ideologia comunista, ma sull’altare del business.

Pechino è oggi una dinamica città moderna. Le olimpiadi del 2008 hanno posto la capitale cinese sotto l’occhio del mondo, dando ancor più impulso ed energia ad una metropoli già di per sé proiettata nel futuro.

Siti olimpici bellissimi come il futuristico “stadio Olimpico a nido d’uccello” o il Water Cube, la magnifica piscina ecosostenibile, regno incontrastato di Michael Phelps, lo squalo di Baltimora, divoratore di otto medaglie d’oro a Pechino 2008.

Nuovi sfavillanti grattacieli, alberghi di lusso, quartieri moderni, enormi centri commerciali, superstrade tentacolari a sei corsie nascono a ritmi forsennati.

Affascinante. Ma chi ha pagato il prezzo di tutto questo? Che ne è stato delle centinaia di miglia di persone che vivevano nei vecchi quartieri storici di Pechino, spazzati dalle ruspe in nome del progresso e dei record di Usain Bolt?

Esistono ancora piccole realtà sociali, luoghi caratteristici, rappresentativi dell’anima tradizionale della capitale cinese? E’ ancora possibile per un viaggiatore uscire dalla avvolgente ragnatela turistico-commerciale che tutto avvolge, per conoscere e immergersi negli usi, i costumi, lo stile di vita di persone comuni, depositarie di tradizioni secolari?
E’ ancora possibile scoprire l’anima della vecchia Pechino? Esiste ancora quest’anima?

Questi pensieri e queste domande mi frullavano in testa da giorni, al mio arrivo a Pechino, dopo settimane trascorse nel paese del Dragone, in cui, a tappe, attraversai la Cina in treno da ovest ad est, dalla regione dello Yunnan fino a Shanghai.

Giornate molto intense e interessanti in cui, tra bellissime scoperte, esperienze uniche a contatto con persone semplici e ospitali, non erano mancati quelli che, a mio parere, erano inquietanti campanelli d’allarme: interi centri storici di piccole città rasi al suolo; cittadine impersonali, private del proprio carattere, invase da negozi di marche occidentali o costruite in funzione dei turisti; città sorte nell’arco di pochi mesi, con schiere di edifici della stessa altezza, costruiti con gli stessi materiali e con gli stessi colori; agghiaccianti ecomostri che mi sbucavano davanti agli occhi all’improvviso, nel bel mezzo della campagna cinese durante la mia traversata in treno.

Dialogai molto, durante quel lungo viaggio su rotaia, con vari compagni di scompartimento, per lo più giovani che parlavano l’inglese. La parola di gran lunga più citata fu “business”. Un pensiero sicuramente comprensibile, una reazione credo normale e spontanea per un popolo che fino a pochi anni fa viveva di stenti, povertà e ideologia. Il desiderio di fare dei soldi, di migliorare la propria condizione personale, più che legittimo, quasi mai mi parve però accompagnato da slanci, ardori o riflessioni in senso civico o ambientale. Considerato il numero dei cinesi, di gran lunga superiore al miliardo, l’impatto delle politiche governative delle autorità e la mentalità media dei singoli individui, pur conscio del mio limitato campione e del fatto che la mia non poteva che essere un’analisi superficiale basata su impressioni, mi spaventai.

Ebbi l’impressione di un paese senza equilibrio. Dal nulla al troppo, senza una adeguata coscienza civica capace di porre un freno: ai tempi di Mao e della sua “rivoluzione culturale” si distrussero le diversità e i lasciti del passato a colpi di ideologia, al fine di un’omologazione ideologica e di classe. Oggi le diversità e le tradizioni, il tessuto storico-culturale che dovrebbe legare una nazione, vengono disintegrate a colpi di Yuan, la moneta cinese con l’effigie del Grande Leader, per un’ omologazione culturale basata sul business, sul successo, sul desiderio di un vestito Armani e di un Iphone 5.

Una sensazione strana, mai percepita nel corso del mio viaggio in un altro grande paese, l’India, spesso accostato per numero di popolazione, sviluppo e crescita economica, alla Cina. Anche in India il progresso avanza a grandi balzi, come è normale che sia. Anche in India, come in Cina, milioni di persone escono dalla povertà e ambiscono, legittimamente, a migliorare i propri standard di vita. Anche nel paese di Gandhi le città, la società e lo stile di vita delle persone cambiano. Ma in maniera diversa, meno veloce e traumatica, e soprattutto mantenendo un proprio carattere. Le novità filtrano ed influenzano la società ma l’anima delle città e delle persone che vi vivono, a differenza della Cina, rimane, sia nelle usanze che nei desideri, più legata ad elementi culturali tipici della società indiana, della propria storia.

Prima di giungere nella capitale mi fermai nella sfavillante Shanghai. Godetti del suo magnifico sky-line, negli elettrizzanti giorni dell’inaugurazione dell’Expo. Un meraviglioso cielo azzurro mi accompagnò per tutti i giorni della mia permanenza.

Che fortuna, pensai, prima della rivelazione di Chiara, un’amica italiana che da anni lavora a Shanghai: “non è fortuna mio caro, qui in Cina nulla è lasciato al caso. Sparano agenti chimici nell’aria e voilà… nuvole dissolte per magia, sole splendente sull’ Expo’! Per la gioia dei media e dei turisti! In questi giorni han chiuso anche alcune fabbriche, i valori delle polveri sottili son scesi sensibilmente, l’aria sembra persino respirabile. Ti assicuro che di solito non è così”.

Pechino mi accolse, al contrario, con un caratteristico cielo grigio topo, un inquinamento intollerabile e polveri sottili a livelli record, come più o meno di norma negli ultimi anni. Giornate olimpiche a parte, ovviamente.

Quasi mi rallegrai, almeno questo era tristemente reale, non era un bluff.

Rimasi stupito dalla maestosità della muraglia, dall’immensità di Piazza Tienanmen. Mi sorpresi non poco dal fatto che ancora oggi, i cinesi in coda con me per visitare il corpo imbalsamato di Mao, rendevano omaggio al Grande Leader depositando enormi corone di fiori.

Visitai templi e palazzi incantevoli e, memore delle evocative immagini del film “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci, mi apprestai a varcar le porte della tanto sognata, misteriosa e affascinante “Città Proibita”.

L’aspettativa, quella solita gran baldracca, era alta. Fortuna vuole che alto lo sia anch’io: riuscii persino a respirare durante la coda per il biglietto d’ingresso e nel corso di tutta quanta la visita, circondato da greggi di turisti dotati di orrendi cappellini a visiera, dello stesso modello e colore, che seguivano rassicuranti pastori-guida dotati di bandierina svolazzante, ben visibile a distanza, nel drammatico caso che qualcuno si fosse perso.

Un’atmosfera decisamente meno poetica ed evocativa rispetto a quella del mio amato film,. Nonostante la bellezza del luogo, fui assai deluso.

Andò male, con “l’ultimo Imperatore”. Fui decisamente più fortunato con “L’ultimo hutong”.

Un antico detto cinese recita: se non entri in un hutong, non conosci Pechino”.

Per fare un salto indietro nel tempo, nella Cina delle tradizioni e dei costumi di un tempo, precedenti al boom economico che ha trasformato la capitale cinese,volevo visitare i tradizionali hutong, gli stretti vicoli della città imperiale che si intrecciano formando un labirinto di Siheyuang, le storiche abitazioni a un solo piano, affacciate su un piccolo cortile interno.

Ma valli a trovare, nella Pechino del 2010, quei quartieri tradizionali.

Presenti a centinaia fino a pochi anni fa, i pochissimi hutong sopravvissuti, miracolosamente scampati alle ruspe olimpiche in quanto considerati “aree architettoniche protette”, sono stati riconvertiti, ripuliti e restaurati a fini turistici. Sono oggi sede di ateliers di artisti, ospitano mostre ed eventi culturali. Un tocco bohemièn, che non guasta mai e tanto piace, anche al sottoscritto.

Interessante, ma la vita reale dov’era?

Rassegnato mi diressi a piedi, camminando a lungo in direzione del mio ostello, pensando che in fondo esperienze di questo tipo in Cina le avevo in ogni caso trovate e vissute nelle campagne dello Yunnan.

Ormai quasi giunto a destinazione un odore di fritto proveniente da una strada richiamò la mia attenzione. Seguii stomaco ed istinto, e voilà…ad una distanza di non più di trecento metri dal mio albergo, nascosto da un paio di edifici alti e moderni, mi ritrovai come per magia nel bel mezzo di un hutong: cinesi di ogni età indaffarati a cucinare, giocare, pedalare, chiacchierare, osservare lo scorrere della vita seduti su divani posti in strada…

Un’atmosfera d’altri tempi, dove la vita segue ritmi lenti, contrapposti a quelli frenetici e veloci della moderna metropoli. Dove la povertà è evidente, così come è evidente la voglia delle persone di compiere piccoli riti sociali, di coltivare rapporti umani.

Trascorsi la seguente giornata, la mia ultima a Pechino, in quel quartiere. Fu il giorno più bello ed emozionante.

Il “mio” hutong è stato spazzato dalle ruspe, circa sei mesi dopo il mio passaggio.

Le persone che vi vivevano da una vita hanno subito lo stesso destino di centinaia di migliaia di persone prima di loro. Dislocate in piccoli, impersonali mini-appartamenti, in zone periferiche della città. Vivono oggi in case prefabbricate, identiche fra loro, della stessa altezza, costruite con lo stesso materiale e dello stesso colore. Forse con più confort, sicuramente con meno anima.

Una piccola testimonianza di uno stile di vita, di usanze e di atmosfere perdute è racchiusa nelle foto che scattai in quella giornata..

Benvenuti nell’ “ultimo hutong”, in un mondo che non c’e’ più… qui il reportage fotografico

Chi è Luca Vasconi

Nato a Torino il 24 marzo 1973, fotografo freelance dal 2012. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Torino, dopo alcuni anni di vita d’ufficio piuttosto deprimenti decide di mettersi in gioco e abbandonare lavoro. Negli anni successivi viaggerà per il mondo alla ricerca dell'umanità variopinta che lo compone.

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2 commenti

  1. Gent. Luca Vasconi…chi ti ha pagato per scrivere questa sequela di scemenze che a tratti rasentano il blasfemo, a tratti lo oltrepassano largamente lasciando scoperto il tuo talento giornalistico grottescamente camufatto? Almeno sai dove si trova la CINA? Ci sei mai stato? Perchè se non ci sei mai stato…posso compatirti, ma se ci sei stato e hai il coraggio di stendere un articolo come questo…devo dire che non hai capito una mazza del tuo soggiorno in CINA!

    • Gentilissimo Sig, Giorgio,
      Sono spiacente di informarla che per “questa sequela di scemenze” non ho ricevuto alcun compenso. Spero se ne faccia un ragione.Scattare foto della Cina senza averla mai visitata non è cosa semplice, dunque desumo di esserci stato, di sapere dove si trova e di non poter esser da lei compatito. I giudizi da me espressi, condivisibili o meno, sono puramente personali e basati sulla mia personale esperienza. Il coraggio di esprimere pareri basati su mie esperienze mai mi mancherà nella vita. La ringrazio in ogni caso per il suo intervento e per le sue certezze. Le critiche aiutano sempre a migliorare, soprattutto quelle altamente costruttive come le sue….
      Cordiali saluti
      Luca

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