Vorrei partire, una sera della vita, verso Karlstein.
Il locale mi aspetta, sempre, al primo binario di Hlavni Nadrazi, alle diciassette e venticinque : entra in stazione, lentissimo, si arresta come in sogno, accanto al marciapiede basso degli anni lontani, apre le sue porte, ormai elettriche, sui neon fiochi, le plastiche usate, azzurrine, l’aria speciale dei vagoni deserti, concessi dal tempo a giorni remoti, e mai più ritornati al presente.
A volte passeggio, lungo il binario, aspetto viaggiatori che non giungono, impiegati, studenti che s’abbracciano prima del partire, controllori sospettosi, macchinisti che fumano all’ora perduta, guardo sul muro l’elenco dei ferrovieri caduti, contro il lavoro, contro l’invasore, arrivo alla fine della volta d’acciaio, già si respira un’aria di fuga, vedo i palazzi, la città che sale, forse la vita lontana, che guarda, tra i ferri e i binari, chi ancora la insegue, s’attarda, e non sa, quale via gli condoni l’attesa e la pena.
Nei giorni del buio più lesto, PRAHA s’accende, bianca, sulle vetrate nuvolose, accoglie il passo di chi torna, dalla pensilina vuota che scorge la città, veglia il suo sussurro senza pace, la corsa incauta d’ogni luce al buio, l’affannarsi d’ombre, per le volte scure : si ritorna, e già si è presi nel partire, ogni pallido nome già canto di sirena, nostalgia, dell’ignaro destino che si sfolla, d’ogni muto annuncio che dilegua, s’addensano i minuti alle soglie del futuro, al valico incessante che scatena l’avvenire, o lo cancella, chiama nella vita le città, o le perde, nella sabbia giudiziosa degli scavi mai conclusi.
Accade, a volte, di passare, le porte del caffé, verso l’arco più vasto della luce, la sosta delle cose, l’urna della polvere sospesa, fra la città serale che s’annuvola d’incanti, e la stagione ferma dei binari, la perenne promessa o rapina dei treni, l’annuncio interminato d’altre ombre, la forma di città che non vedremo : non mi fermo, mai, per questo limbo, non so reggere nel corpo il transito di tutto, l’infinito scontrarsi degli istanti, la sperduta voce del passato, avanzo, negli androni vuoti, verso il tiepido salone delle ninfe, l’orologio quieto, immobile, sorretto nell’eterno dalle bianche dita, posso ancora sostenermi a questa pace, a quest’ora che smarrisce le sue frecce, posso credere all’incenso del carbone, al profumo di miniera che richiama, in un respiro, gli anni e le stagioni.
bravo, parole evocative