I cittadini turchi non hanno il diritto di entrare senza visto nel territorio di uno Stato membro UE per fruirvi di servizi, ad esempio come turisti: l’ha confermato, il 24 settembre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (o Corte europea di giustizia, ECJ) nel caso di Leyla Demirkan. Un caso che, inizialmente, aveva lasciato sperare in un passo avanti per l’integrazione della popolazione turca in Europa, e per la riforma della politica europea dei visti.
Il caso Demirkan: una speranza per i turchi in Europa dall’accordo di associazione del 1963?
Come ricordato da un rapporto ESI preliminare alla sentenza, Leyla Ecem Demirkan è una ragazza ventenne di Mersin, in Turchia, la cui madre si è risposata con un cittadino tedesco. Nel 2007, Leyla chiedere un visto al consolato tedesco di Ankara per visitare il padre in Germania, ma questo le viene rifiutato. La sua storia non è unica: nel 2012, i consolati dei paesi Schengen hanno rifiutato il visto a più di 30.000 cittadini turchi, specialmente se giovani e non sposati, per il rischio che questi restino illegalmente all’interno dei confini UE alla sua scadenza.
Leyla Demirkan ricorre alle corti tedesche contro la decisione; il suo avvocato, Rolf Gutmann di Stoccarda, sostiene che la Germania non abbia diritto a richiedere il visto ai cittadini turchi, in base all’Accordo di associazione tra Comunità Europee (CEE) e Turchia del 1963. Dopo il rigetto in primo grado, il “TAR” di Berlino decide di procedere ad un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE (ECJ), perché si pronunci sulla compatibilità tra diritto europeo, accordo di associazione con la Turchia, e sistema europeo dei visti.
L’accordo di associazione CEE-Turchia del 1963 e l’introduzione dei visti
L’accordo di associazione del 1963 con la Turchia (Accordo di Ankara) è il secondo firmato dalla CEE, a solo 5 anni dalla sua fondazione, dopo quello del 1961 con la Grecia. Il suo obiettivo, secondo l’articolo 1, è di “promuovere un rafforzamento continuo ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche tra le Parti”, oltre che di “assicurare un più rapido sviluppo dell’economia turca ed il miglioramento del livello dell’occupazione e del tenore di vita del popolo turco.” CEE e Turchia convengono di creare un’unione doganale e preparare una futura adesione della Turchia al blocco commerciale europeo occidentale.
A cinquant’anni dalla firma, l’accordo di associazione con la Turchia resta il più onnicomprensivo che l’Unione abbia firmato. L’unione doganale è entrata in vigore nel 1995, dando grande impeto alla crescita economica turca, mentre dal 2005 la repubblica anatolica è candidata all’adesione. UE e Turchia siedono in maniera paritaria all’interno del Consiglio d’Associazione, incaricato di prendere decisioni all’unanimità per portare avanti l’associazione. Tra le altre cose, l’accordo del 1963 prevedeva di muoversi gradualmente verso la piena libertà di stabilimento (la libertà di perseguire un’attività economica come libero professionista, e di stabilire e gestire un’impresa) e di prestazione di servizi.
Dieci anni dopo, nel 1973, un Protocollo tra CEE e Turchia stabiliva all’articolo 41 che “le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi,” aggiungendo che il Consiglio di associazione avrebbe trovato un accordo su una progressiva abolizione delle restrizioni alla libertà di stabilimento e di provisione di servizi. In assenza di tali sviluppi negli ultimi 40 anni, la clausola di standstill dell’art. 41 è oggi al centro del caso Demirkan.
Nel 1973, infatti, i cittadini turchi non avevano bisogno di visto per recarsi in Europa occidentale per meno di tre mesi, tranne che nel caso della Grecia – allora non ancora membro CEE. Il regime dei visti viene introdotto da alcuni paesi CEE a seguito del colpo di stato del 1980, per il timore di un massiccio afflusso di rifugiati. Con lo stabilimento dell’area Schengen negli anni ’90, la necessità di visto per i cittadini turchi diviene una politica dell’intera UE.
Il caso Soysal e Savatli (2009): la vittoria di due camionisti (ma la pratica è un’altra cosa)
Assieme alla politica dei visti, arrivano i primi casi giudiziari: il più importante il caso Soysal e Savatli del 2009. I due ricorrenti, camionisti sulla rotta Germania-Turchia, assistiti dallo stesso avvocato di Demirkan, Rolf Gutmann, lamentano che dal 2001 in poi i consolati tedeschi rigettano ripetutamente le loro richieste di visto per lavoro. La Corte di Giustizia dell’UE dà loro ragione, sostenendo che l’obbligo di visto rappresenta una “nuova restrizione” contraria all’art. 41 del Protocollo CEE-Turchia del 1973, e richiede agli stati membri UE che gli obblighi di visto per i cittadini turchi siano riportati alla situazione in vigore al momento dell’entrata in vigore del Protocollo per ciascuno stato: il 1973 per i nove stati dell’allora CEE, la data di adesione (1981, 1986, 1995, 2004, 2007) per gli altri 19 stati che da allora sono entrati nell’Unione.
“Siamo entrati in Europa col camion!”, titolava il giorno successivo il quotidiano Sabah. Tuttavia gli entusiasmi erano forse eccessivi. Da una parte, diversi stati membri UE hanno fatto orecchie da mercante, non mettendo in atto la decisione della Corte di Lussemburgo. Secondo una ricerca dell’università di Nimega (Paesi Bassi) “la reazione dei governi di Belgio, Francia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito appare simile a quella di uno struzzo”. Dall’altra parte, la richiesta di riportare le lancette dell’orologio indietro ad una data anteriore, diversa da stato a stato, ha creato un’incertezza del diritto e reso altrettanto difficile dimostrare, pratiche alla mano, di non aver bisogno di un visto in quanto fornitore di servizi, quanto lo è domandare un visto stesso, con in più il rischio di vedersi comunque rigettato alla frontiera da doganieri troppo zelanti. Per lo stato in cui questa ha avuto l’impatto maggiore, la Germania, i casi di “eccezione Soysal” sono diminuiti col passare degli anni, da 4021 nel 2010 a 1,357 nel 2011.
Il caso Demirkan (2013): ai limiti dei benefici dell’accordo di associazione
Ma la questione di Leyla Demirkan andava al di là di quanto riconosciuto a Soysal e Savatli. Leyla Demirkan non chiedeva di entrare in Europa per offrire servizi, bensì per riceverli (“prestazione passiva”). Nel diritto UE, infatti, le qualifiche del prestatore e del beneficiario di un servizio sono equiparate, almeno a partire dal caso Luisi e Carbone del 1984 (ma la nozione è già citata in una direttiva del 1964).
Vale la stessa cosa per i cittadini turchi, così come coperti dall’Accordo di associazione? Sì, secondo l’avvocato Gutmann, poiché l’accordo include le stesse parole (“libera prestazione di servizi”). No, secondo la Corte UE: poiché l’accordo di associazione UE-Turchia è un accordo separato dai Trattati UE, e con un diverso obiettivo (il solo sviluppo economico della Turchia, anziché la libertà di movimento dei cittadini UE), i termini dell’accordo vanno interpretati in maniera autonoma. L’equiparazione tra prestatore e beneficiario di servizi, nel diritto UE, non è estendibile al “diritto dell’associazione” UE-Turchia, dove il Consiglio d’associazione, negli ultimi 50 anni, non ha fatto nulla per ridurre le restrizioni alla libera prestazione dei servizi. Pertanto, la clausola di standstill dell’art. 41 dell’Accordo di associazione non copre anche gli eventuali beneficiari turchi di servizi all’interno dell’UE. I turisti turchi dovranno continuare a chiedere un visto se vogliono entrare nel territorio dell’Unione, l’Accordo di Ankara ha raggiunto il limite dei suoi benefici per i cittadini turchi con l’eccezione Soysal.
Secondo la corte UE,
il Protocollo addizionale dell’Accordo di associazione CEE-Turchia non osta all’introduzione, dopo la sua entrata in vigore, di un obbligo di visto per quanto riguarda la fruizione di servizi. A causa delle differenze fondamentali esistenti tra i Trattati dell’Unione, da un lato, e l’Accordo di associazione nonché il suo Protocollo addizionale, dall’altro, per quanto riguarda tanto la loro finalità quanto il loro contesto, l’interpretazione della nozione di libera prestazione dei servizi riconosciuta dalla Corte nel 1984 per i Trattati dell’Unione come includente la libera prestazione dei servizi passiva non può essere estesa alla clausola di «standstill» del Protocollo addizionale”.
In ogni caso, anche se la Corte UE avesse accettato le argomentazioni di Gutmann e statuito in favore di Leyla Demirkan, la situazione non sarebbe cambiata in maniera sostanziale. I cittadini turchi avrebbero avuto il diritto di entrare senza visto, per ricevere servizi, in 11 stati membri UE, ma l’obbligo di visto sarebbe rimasto per entrare negli altri 17 stati, specialmente nel caso in cui si tratti di stati di transito, incluse Grecia, Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria. Il governo turco avrebbe quindi comunque dovuto lanciare un dialogo con l’UE per ottenere la liberalizzazione dei visti nel resto dell’Unione, oltre che per garantire un’applicazione effettiva dell’eccezione Soysal.
Dopo Demirkan: la necessità di un dialogo per la liberalizzazione dei visti
Secondo l’ESI, il risultato negativo del caso Demirkan dimostra la necessità impellente per la Turchia di avviare un negoziato con l’UE per la liberalizzazione del regime dei visti, come Bruxelles aveva offerto al governo Erdoğan già l’anno scorso. La Turchia aveva sempre rifiutato, nella convinzione che i requisiti europei sui visti fossero semplicemente illegali. La sentenza Demirkan dovrebbe aver messo la parola fine a tale argomentazione.
La Turchia dovrà soddisfare alcuni requisiti per qualificarsi per un regime visa-free, incluse questioni di controllo delle frontiere, politica di asilo e lotta all’immigrazione irregolare. Inoltre, Ankara dovrà firmare un accordo di riammissione, accettando di riprendere i migranti irregolari, anche di paesi terzi, che passano dalla Turchia per entrare nell’UE, questione su cui il governo turco è sempre stato molto reticente. Secondo l’ESI, la Turchia dovrebbe accettare di firmare tale accordo, pur rinegoziandone alcune condizioni in maniera costruttiva. L’impatto di tali accordi, ad esempio nel caso dell’Ucraina, si è dimostato limitato (solo 108 riammissioni nel 2012).
Dall’altra parte, l’UE e i suoi governi dovranno agire in fretta per evitare che la disillusione per il caso Demirkan rafforzi ancora di più la distanza tra UE e Turchia, approfonditasi dopo i fatti di Taksim. Solo pochi giorni fa, il ministro turco per l’integrazione europea (!) Egemen Bağış dichiarava che “la Turchia probabilmente non diventerà mai uno stato membro UE” a causa dell’opposizione e dei “pregiudizi” di diversi stati membri attuali, preconizzando piuttosto una futura relazione simile a quella tra UE e Norvegia.
Per evitare che l’UE diventi il capro espiatorio di un governo Erdoğan sempre più autoritario, l’ESI pone una serie di raccomandazioni affiché il dialogo per la liberalizzazione dei visti sia preso sul serio. In primis, diversi stati membri potrebbero impegnarsi a ridurre i casi di rigetto delle richieste di visto, alla stregua di Italia e Grecia dove solo l’1% delle richieste è rimandato al mittente, oltre che a concedere più facilmente visti ad entrata multipla validi fino a cinque anni, e a ridurre le incombenze burocratiche quali la presentazione di persona di ogni richiesta di rinnovo del visto. Inoltre, la Commissione e gli stati membri dovrebbero prendere sul serio la sentenza Soysal, facilitando l’accesso senza visto ai prestatori di servizi dalla Turchia.
Infine, come sottolineato dalla stessa ECJ, è tempo che UE e Turchia siedano insieme, nell’ambito del Consiglio d’associazione (oggi equiparato ai negoziati d’adesione in corso) per soddisfare l’obbligo, a 50 anni dalla firma del trattato d’associazione, di stabilire un programma per l’abolizione progressiva delle restrizioni alla libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Assieme all’apertura di un nuovo capitolo negoziale sulla politica regionale, previsto per ottobre, questo sarebbe un passo politicamente e simbolicamente importante per rilanciare le relazioni tra Bruxelles e Ankara.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato, in versione ridotta, su Osservatorio Balcani e Caucaso il 29 ottobre 2013
Foto: Ian Usher, Flickr