Gezi Park, uno dei più grandi parchi della città di Istanbul, è diventato in questi giorni il simbolo di una protesta che in pochi giorni è andata ben oltre l’opposizione alla cementificazione dell’area verde. Da quando la polizia è intervenuta brutalmente a reprimere la manifestazione nel quartiere di Taksim, dove si trova il parco, il numero delle persone accorse a sostenere gli occupanti del parco è aumentato, nonostante la pioggia di lacrimogeni lanciati dalla polizia sui manifestanti. La protesta non riguarda più solamente la costruzione di una caserma e di un centro commerciale al posto del parco. Come affermano alcuni attivisti turchi, Gezi Park è ormai il simbolo del malessere di una popolazione schiacciata da un regime autoritario che favorisce l’islamizzazione della società e che mira alla crescita economica ignorando l’ingiustizia sociale in aumento nel paese.
La protesta di Gezi Park riporta alla mente un evento molto simile che, per una strana coincidenza, si verificò proprio negli stessi giorni dell’anno scorso nella città di Banja Luka, capitale della Republika Srpska di Bosnia Erzegovina. A fine maggio centinaia di cittadini bosniaci occuparono il parco cittadino, Picin Park, per opporsi alla decisione del governo locale di edificare su quella che era considerata l’unica area verde di Banja Luka. La dinamica della protesta è praticamente la stessa di Gezi Park. Quando le ruspe si materializzarono e cominciarono a tagliare i primi alberi, i cittadini di Banja Luka intervennero ad occupare il parco, e continuarono a protestare camminando attorno all’area per più di cinquanta giorni. Anche in questo caso i manifestanti reclamavano il diritto a salvaguardare il parco cittadino, ma esprimevano anche la loro insoddisfazione per la disastrosa situazione sociale ed economica del paese e il restringimento della libertà di espressione.
A prima vista, le due proteste potrebbero sembrare un caso di “sindrome NIMBY”, acronimo che sta per Not-In-My-Backyard, non nel mio giardino. Il termine, che ha una connotazione negativa, indica la resistenza al cambiamento da parte di cittadini che si oppongono alla costruzione di infrastrutture nel loro quartiere. Non tanto per motivi ambientali o di giustizia sociale, quanto per egoismo, perché potenziali centri commerciali e discariche danneggerebbero la loro qualità di vita. I parchi cittadini Picin e Gezi dimostrano il contrario. La cementificazione dei parchi ha funzionato da detonatore di una protesta tutt’altro che egoistica. I parchi sono diventati il simbolo di una battaglia più ampia che si gioca tra la società civile, intervenuta a tutela del bene pubblico, e un governo autoritario che impone le sue decisioni senza riguardo per i propri cittadini. Erdogan in Turchia come Dodik in Republika Srpska, due presidenti-padroni che nei rispettivi stati (entità nel caso della Republika Srpska) fanno il bello e il cattivo tempo in nome del profitto e della crescita economica.
L’aspetto significativo è che, in due paesi i cui governi hanno svenduto le proprie risorse naturali allo scopo di ricavare profitti dalla vendita di energia, sommergendo e distruggendo interi villaggi per costruire centrali idroelettriche, la società civile si attivi a partire proprio da un’area verde pubblica. Costruire edifici al posto di un parco cittadino significa togliere ad una comunità il diritto ad usufruire di uno spazio di ritrovo pubblico, libero, gratuito, un valore non quantificabile in termini monetari. È un intero sistema che viene messo in discussione dagli occupanti dei parchi cittadini. Le proteste di Istanbul, così come quelle di Banja Luka, sono la prova lampante che le politiche economiche liberiste seguite da entrambi i governi hanno fallito, tanto quanto i loro tentativi di mettere a tacere l’opinione pubblica con misure restrittive della libertà di espressione. In entrambi i paesi i cittadini continuano a rivendicare un sistema diverso, che metta al centro il bene pubblico. A partire dal parco cittadino.