SIRIA: Armi chimiche? Sì, in mano ai ribelli. Lo dice Carla Del Ponte

Chimismi bellici

“Abbiamo le prove che le armi chimiche in Siria ci sono, ma sono in mano ai ribelli“. A dirlo è Carla Del Ponte, membro della Commissione Onu che indaga sui crimini di guerra commessi in Siria. Ecco che la messa cantata al regime siriano trova una voce stonata. La Del Ponte, già procuratore generale per i crimini commessi in ex Jugoslavia, ha dichiarato alla Radio svizzera italiana che “abbiamo potuto raccogliere alcune testimonianze sull’utilizzo di armi chimiche, e in particolare di gas nervino, ma non da parte delle autorità governative, bensì da parte degli oppositori e dei resistenti”.

Si tratta di elementi che dovranno essere vagliati e accertati con cautela, ha avvertito Del Ponte. Ma si tratta di elementi che a suo giudizio vanno tenuti in conto e che non permetterebbero un punto di vista “manicheo”, né una valutazione unilaterale di colpe e ragioni rispetto a quanto accade in Siria. “Per il momento noi abbiamo solo elementi sull’uso di armi chimiche da parte dagli oppositori. Poi, quando la Commissione speciale potrà condurre l’inchiesta, si potrà stabilire se anche il governo ha fatto utilizzo di queste stesse armi”, ha affermato.

Quello dell’utilizzo di armi chimiche è considerata, come già avvenne in Iraq, una buona ragione per una guerra. Il presidente Obama ha dichiarato che se venisse riscontrato l’uso di armi chimiche da parte del regime di al-Assad, la posizione americana – finora improntata al non intervento diretto e alla ricerca di soluzioni politiche condivise, specie con la Russia – cambierebbe radicalmente. E adesso che il gas nervino lo usano i ribelli a Washington cosa faranno?

“In conflitti come quello siriano – conclude Del Ponte – non ci sono buoni e cattivi. Per me sono tutti cattivi perché tutti, sia una parte sia l’altra, commettono crimini”

La questione siriana

La questione siriana, come già vi abbiamo raccontato, è assai complessa. Da un lato c’è un regime sanguinario che ha represso nel sangue le prime manifestazioni (pacifiche) di dissenso che ebbero luogo sulla scorta delle cosiddette primavere arabe. La reazione alla repressione fu la costituzione di un’armata irregolare di “resistenti” che si fecero chiamare Esercito libero siriano. Ma presto in Siria arrivarono milizie islamiste, finanziate dall’Arabia Saudita e di ispirazione wahabbita, e osservatori britannici. Oggi non è più possibile distinguere tutte le parti in causa, molti gruppi si sono frazionati, altri ne sono sorti: combattono tutti il nemico comune, al-Assad, ma non esiteranno a prendere le armi gli uni contro gli altri non appena la testa del dittatore rotolerà sulla piazza di Damasco.

La diplomazia internazionale è divisa sul da farsi poiché differenti sono gli interessi da tutelare. Gli Stati Uniti vedrebbero di buon occhio un governo amico, come già in Libia, che di fatto isolerebbe l’Iran, alleato siriano ed ultimo nemico di Washington. La Russia, che con al-Assad stava in affari, non è della stessa idea: al porto di Tartus teneva ancorata una flotta da guerra tramite la quale poteva tenere un piede nel Mediterraneo. Quel Mediterraneo in cui ora si scopre un immenso giacimento di gas (e si sa quanto ai russi piaccia il gas) che va dalle coste di Israele e del Libano fino a Cipro e alla Turchia. Quella Turchia che vorrebbe la costituzione di una zona cuscinetto nella regione di Aleppo su cui esercitare la propria influenza. L’Arabia Saudita vedrebbe di buon occhio la caduta di un regime sciita come quello siriano. L’Iran, alleato si Siria e Libano, ha finora goduto di buone relazioni con Russia e Cina che, non a caso, hanno posto il loro veto in sede Onu a un attacco contro Damasco.

Insomma, quello siriano è un ginepraio sia se si guarda alle parti in lotta, sia se si guarda alle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti hanno spinto sulla ricerca di armi chimiche per trovare un casus belli, ma sono stati smentiti. Faranno orecchie da mercante?

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Foto tratta da un frame video / Euronews

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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4 commenti

  1. Bonaiti Emilio

    Finalmente é risuonata la voce della verità. Carla ha accertato la verità sull’affaire gas nervini ma si resta colpiti quando osservando una guerra civile tra reparti regolari e irregolari arriva alla conclusione: “Non ci sono buoni e cattivi. Per me sono tutti cattivi, perché tutti, sia una parte che l’altra, commettono crimini”. Ma basta leggere la storia: in tutte le guerre civili le efferatezze, le rappresaglie, i massacri sono all’ordine del giorno, guerriglieri spagnoli contro Napoleone, guerra, di fatto civile, negli Stati Uniti, guerra tra comunisti e zaristi, guerra partigiana nel secondo conflitto mondiale, guerra nel Ruanda, guerre jugoslave, vi è solo l’imbarazzo della scelta.
    Per concludere Matteo quale consiglio si sente in grado di dare agli Stati Uniti?

  2. Sto al gioco, signor Bonaiti. Se io fossi John Kerry negozierei con la Russia lasciandogli una fetta della torta, metterei su un governo di coalizione nazionale con seconde linee del regime di Assad e leader ribelli. Marginalizzerei le componenti islamiste (che in tanti anni gli Stati uniti avranno imparato che a finanziare i fondamentalisti poi ci rimettono…) e farei pressione sull’Arabia Saudita perché contribuisca al disarmo delle suddette. Manderei i caschi blu (meglio se turchi) nelle zone calde a creare aree di cuscinetto. L’Iran sarebbe comunque isolato, al-Assad sarebbe sotto processo all’Aja, la Russia sarebbe contenta di essere riconosciuta come interlocutore, forse si eviterebbe persino un altro conflitto in Libano e Israele non avrebbe nulla da lamentarsi. 🙂

    m.z.

    • Condivido le perplessità del sig. Bonaiti, troppa gente da convincere e Assad se ne va solo se gli garantiscono l’impunità, altrimenti resterà a combattere sapendo di poter contare sull’appoggio dei siriani non-sunniti (metà della popolazione) e su appoggi internazionali che Saddam non aveva. Per ora si sta realizzando il punto 1, Russia e USA hanno fatto l’inciucio, il seguito è tutto da vedere. Gli islamisti sono forti e non sarà facile emarginarli (non ci si è riusciti neanche in Irak, Libia e Afghanistan), l’Iran non starà a guardare, può contare sull’Irak ormai in mano agli sciiti, nonchè su Hezbollah e sulla parte Alawita della Siria. Finora tutti i precedenti (Irak, Afghanistan, Libia) hanno dimostrato che questi paesi una volta destabilizzati non sono più riportabili alla normalità.

  3. Bonaiti Emilio

    Perplessità: L’Arabia saudita sunnita che finanzia i gruppi fondamentalisti rinuncerebbe alla sua politica, vedendo in quali difficoltà si dibatte l’Iran, suo acerrimo nemico, impossibilitato ad aiutare gli Hetzobollah attraverso la Siria? L’Iran sciita accetterebbe di perdere la sua leadership sulla Siria. I Turchi manderebbero i loro soldati nel calderone siriano con probabili perdite contro le quali si scaglierebbe l’opinione pubblica turca? Assad messo sotto processo potrebbe ricattare i suoi ex amici.
    Comunque sarei felice di avere torto.

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