“Sever Kosova i Metohije ostaje u Srbiji“, il nord del Kosovo e Metochia resta in Serbia. È questo lo slogan scandito dai ventimila di Kosovska Mitrovica a far da sottofondo a quella che è stata una manifestazione di protesta di massa contro il patto siglato venerdì scorso a Bruxelles tra Pristina e Belgrado.
La manifestazione è stata indetta dalle autorità di quelle quattro municipalità del nord della regione a cui l’accordo fa riferimento. A parlare alla folla c’è anche Krstimir Pantić, vice direttore dell’ufficio per il Kosovo nonché sindaco di Kosovska Mitrovica – Nord. A lui, così come al premier serbo Ivica Dačić, sono state indirizzate le accuse di “traditore” in quanto presente alla firma degli accordi a Bruxelles, e quindi colpevole di non aver rappresentato gli interessi dei serbo-kosovari, la cui unica ambizione è quella di essere parte integrante della propria madrepatria.
Dal canto suo Pantić ha illustrato quelle che sono le tre vie alternative dei serbo-kosovari: la prima è quella che porta al riconoscimento dell’autorità di Priština e delle leggi kosovare su tutta la popolazione della regione; la seconda, porta a Belgrado, cioè al ricongiungimento con il resto della Serbia; e la terza, considerata l’unica via possibile, è quella che conduce “all’incertezza e al rischio”, cioè alla creazione di un’unione delle municipalità del nord (Kosovska Mitrovica – Nord, Zvečan, Zubin Potok e Leposavić) e alla loro autonomia d’amministrazione. In sostanza, quest’ultima opzione è stata l’oggetto delle lunghe trattative e di fatto può esser considerata come il più alto risultato raggiunto tra le parti. Ciò nonostante, questo sistema non fa che ufficializzare ed istituzionalizzare la precedente asimmetria istituzionale. Sotto questo punto di vista, l’accordo non migliora affatto la situazione anzi, la peggiora.
Mentre prima dell’accordo i serbi del Kosovo potevano contare sull’appoggio incondizionato sia politico che finanziario di Belgrado, ora questi sono abbandonati a se stessi. L’istituzione di una comunità serba di Kosovo avrà l’effetto di costituire l’unica garanzia per la popolazione serbo-kosovara, non favorendo affatto l’integrazione della comunità in una cornice statale comune né un miglioramento delle relazioni inter-etniche. In altre parole, le barriere che prima esistevano ora sono state consolidate con quello che la popolazione locale ha chiamato “tradimento” da parte di Belgrado, invitando la popolazione a sviluppare ed autogestire istituzioni parallele a quello di uno stato di cui non si sente parte. Col passare del tempo, quest’accordo potrebbe degenerare nella costituzione di una Republika Srpska come quella della Bosnia-Erzegovina, dove de facto convivono due stati in uno.
Se da un lato quest’accordo è rifiutato per intero dal nord del Kosovo, dall’altro esso rappresenta una svolta storica non solo per il resto della provincia ma anche per la Serbia stessa, per diversi motivi. Innanzitutto, perché Belgrado non ha più intenzione di versare fondi per qualcosa che sa benissimo che non potrà più ottenere; e inoltre perché questo avvicinerà il paese a quelle istituzioni europee che hanno mediato l’accordo.
Dal canto suo l’Unione Europea, come mediatrice dell’accordo, non fa altro che riaffermare due tra i suoi più autentici marchi di fabbrica: la mancanza di un’azione politica comune, dal momento che spinge forzatamente Belgrado al riconoscimento dell’indipendenza di parte del suo territorio, mentre all’interno dell’UE stessa non c’è unanimità nel riconoscere il Kosovo; e il consolidamento dell’ennesimo status-quo in Europa, la cui evoluzione graduale serve solo a mantenere congelate le tensioni, senza mai che queste siano estinte alla radice.
FOTO: Giovanni Bottari