SERBIA: Rifugiati, il paese verso la crisi umanitaria

Mentre in Unione Europea si discute con preoccupazione crescente della liberalizzazione dei visti per i paesi balcanici, che ha portato a una drammatica impennata di richieste d’asilo da parte dei cittadini (soprattutto di etnia rom) di Serbia e Macedonia, la Serbia affronta per la prima volta un problema speculare, all’interno dei propri confini.

Da alcuni anni, infatti, il numero di transfughi che si trovano ad attraversare il paese è in crescita esponenziale. Si tratta di quell’enorme fronte di pressione migratoria che dall’Asia e dal Medio Oriente spinge alle porte d’Europa, Grecia in testa, e che è andato crescendo a seguito del conflitto siriano: stime dell’ONU dicono che, a causa della guerra, mezzo milione di persone ha lasciato la Siria per non tornare più. Con la difficile situazione greca, ed un oggettivo sovraffollamento migratorio proveniente dalle due direttrici, africana e asiatica, parte di questa massa intraprende sempre più spesso la via dei Balcani per raggiungere l’Europa ricca, e attraversa, nel percorso, anche la Serbia, accentrandosi al confine settentrionale con l’Ungheria, nei pressi di Subotica, da dove ritenta l’ingresso nell’Unione Europea. Negli ultimi anni il loro numero è cresciuto, sino a toccare 15.000 casi accertati nel solo 2012, e la polizia stima che in realtà siano almeno il doppio. I tempi medi di permanenza nel paese di transito, inoltre, sono passati da due-tre settimane fino anche a tre mesi.

La Serbia ha introdotto nel 2008 una legge per gestire la questione dei richiedenti asilo, accordando loro il diritto ad essere mantenuti a spese dello stato per la durata dell’iter deliberativo. Fino ad oggi, nel concreto, tale legge è rimasta lettera morta: solo a fine dicembre 2012 i primi tre esiti favorevoli, a fronte di migliaia di domande respinte. Si tratta di due studenti libici dell’università di Belgrado, trovatisi nella capitale serba allo scoppio del conflitto in Libia, nel 2011, e timorosi di rientrare per paura di essere perseguitati dal nuovo governo, oltre ad un egiziano di religione copta, già in passato recatosi in Serbia con regolare visto per ragioni di lavoro. Per larghissima parte dei casi, richiedere l’asilo serbo è unicamente strumentale per l’accesso ai diritti base di ogni cittadino, dalle cure mediche all’assistenza sociale, ma tuttora vige un vuoto normativo riguardo a come, concretamente, gli ottenenti asilo dovrebbero essere integrati all’interno della nuova comunità.

Al momento, in Serbia esistono due centri per l’accoglienza degli immigrati irregolari. Il primo, aperto nel 2008, al confine bosniaco sulla Drina, a Banja Koviljača, e l’altro, inaugurato nel 2011 in risposta ai crescenti problemi di spazio, a Bogovađa, un paesino sessanta chilometri a sud di Belgrado. In quest’ultimo risiedono ad oggi 284 migranti, contro una capienza massima di 150 posti letto. Sul sito del comune si legge che il Commissariato di Serbia per i Profughi e Migranti è pronto a pagare 50 euro al mese a chiunque scelga di ospitare un profugo sotto al proprio tetto. A centinaia rimangono asserragliati fuori dalle porte del centro, e dormono in rifugi di fortuna, tende, sacchi di plastica, nei boschi circostanti o in discariche a cielo aperto. Alcuni hanno denunciato vessazioni subite dalla polizia, che chiede loro soldi, depredandoli degli ultimi risparmi e rendendo ancora più difficoltoso il proseguimento del viaggio. Spesso vengono arrestati e deportati in Macedonia a gruppi, senza che le loro legittime richieste d’asilo vengano prese in considerazione. Nel settembre 2012, Ahmed Al Katabi, immigrato iracheno, ha accusato il direttore del centro di Bogovađa, Stojan Sjekloć, di far pagare 40 euro per ottenere un posto letto al suo interno, e tra i 10 e 30 euro per redigere permessi d’uscita, ai quali i migranti avrebbero automaticamente diritto. Altre testimonianze parlano di lavori forzati inflitti anche a soggetti malati e rifiuto di fornire pasti per giorni di fila. Ma la condizione più drammatica la vivono le persone fuori dal centro, in una situazione di estrema precarietà: senza un tetto sulla testa, senza accesso a servizi igienici e sanitari, senza acqua, senza cibo, senza vestiti, camminano letteralmente scalzi nel gelido inverno serbo. A dicembre, alcuni migranti dalla Palestina, dalla Siria e dal Mali sono stati ricoverati al reparto di chirurgia vascolare dell’ospedale di Valjevo con sintomi da assideramento e congelamento dei piedi.

Ancora nel 2011, Eduardo Arboleda, rappresentante in Serbia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), si diceva preoccupato per la crescente emergenza umanitaria a cui la Serbia stava andando incontro, e per il diradarsi delle già poche risorse stanziate a tale scopo. Aggiungeva inoltre, al numero degli immigrati dalla periferia del mondo, il problema di quel 7% della popolazione serba di etnia rom sprovvista di documenti, ed addirittura un 1,5% nemmeno registrato all’anagrafe, per cui completamente assente da qualsiasi forma di censimento e copertura sanitario-assistenziale: su una popolazione rom stimata a 450.000 persone, significherebbe che 30.000 individui sono totalmente invisibili alle autorità. Vladimir Cucić, commissario per i rifugiati della Repubblica di Serbia, ha dichiarato a inizio gennaio 2013 di non saper rispondere a quanto ammonterà in futuro il numero di rifugiati richiedenti asilo e alloggio provvisorio all’interno del paese. È ad ogni modo prevedibile che le attuali direttrici migratorie andranno solamente rafforzandosi nel prossimo avvenire, facendo della Serbia una bomba ad orologeria pronta a scoppiare in mancanza di un forte appoggio finanziario esterno.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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