La disoccupazione[i] nella zona euro sfiora ormai il 12%, anche se questa media poco rispecchia le enormi differenze interne, dall’Austria al 4.5% alla Spagna al 26.6%.
A questi dati si riferiva Jean-Claude Juncker pochi giorni fa, quando, nel discorso a conclusione del mandato come presidente dell’Eurogruppo[ii], affermava che l’Europa sta “sottovalutando l’enorme tragedia della disoccupazione”. Un discorso che stupisce, tanto più visto che proviene da un esponente del partito popolare, un conservatore, primo ministro nel paese con i più alti salari d’Europa, il Lussemburgo. E stupisce tanto più perché non si ferma qui.
Juncker esprime i propri dubbi “sul modello di risanamento che abbiamo applicato in alcuni paesi”, critica la visione diffusa tra i paesi del Nord di essere economicamente più virtuosi rispetto agli stati del sud Europa – invece “dovrebbero guardare i propri conti degli ultimi dieci anni” – e propone un meccanismo che compensi quei paesi che hanno introdotto misure di austerità, in modo tale da bilanciarne gli effetti negativi e premiare gli sforzi fatti, un meccanismo in cui anche i più ricchi paghino le conseguenze della crisi. Altrimenti “ne va del modello europeo“, quello stesso modello che Mario Draghi dava per spacciato oltre un anno fa e che invece c’è chi – almeno a parole – vorrebbe salvare. Un modello di solidarietà e tutela dei più deboli, dove gli ammortizzatori sociali hanno in parte attenuato l’impatto della recessione.
Secondo quanto riportato dall’articolo Automatic stabilizers and economic crisis: US vs Europe sul Journal of Public Economics, infatti, gli stabilizzatori automatici, ovvero quegli “elementi di politica fiscale che mitigano le fluttuazioni senza un’azione discrezionale del governo”, come le indennità di disoccupazione, in Europa riducono lo shock sul reddito derivato dalla perdita del lavoro molto più che negli Stati Uniti (il 47% rispetto al 34%). In altre parole, grazie agli ammortizzatori sociali, il reddito disponibile per chi perde un lavoro diminuisce molto meno in Europa che negli Stati Uniti. Ma esistono delle fortissime differenze intra-europee, con i paesi dell’Europa orientale e meridionale caratterizzati da un basso livello di stabilizzatori automatici.
E proprio a causa delle differenze tra i diversi paesi europei, il presidente dell’Eurogruppo ha suggerito – citando addirittura Karl Marx – che “ogni paese dovrebbe introdurre un salario minimo per legge, così da impedire che la crisi pesi sul reddito delle fasce più deboli”. Anche se la questione è più complessa. Ad oggi, infatti, il salario minimo esiste in 20 dei 27 paesi europei (13 dell’eurozona). Varia però il suo rapporto con costo della vita. In alcuni paesi, per esempio, il salario minimo costituisce circa il 50% del salario medio (Slovenia, Grecia, e poco sotto la Francia), in altri supera di poco il 30% (Rep. Ceca, Romania, Bulgaria)[iii].
La teoria economica considera rischiosa l’introduzione del salario minimo, in quanto non permettendo al mercato di determinare i prezzi in base al gioco di domanda/offerta rischierebbe di far aumentare la disoccupazione. Ma i dati la smentiscono. Secondo quanto risulta dal rapporto “Occupazione e sviluppi sociali” presentato lunedì scorso alla Commissione europea, infatti, “i paesi con i salari minimi più elevati non hanno registrato l’espulsione dal mercato del lavoro dei lavoratori meno qualificati per ragioni di costi ed anzi tendono ad avere tassi più elevati di occupazione dei lavoratori poco qualificati”.
Né Juncker né la Commissione Europea si spingono oltre, ma un’ulteriore possibilità per ridurre il rischio di disoccupazione legato ai salai minimi e diminuire le diseguaglianze di reddito sarebbe imitare il modello norvegese. Tra altri aspetti peculiari, Karl Moene, professore di economia all’università di Oslo, durante la conferenza su Inequality and Social Welfare Theory ne evidenzia la compressione dei salari dal basso, ma anche dall’alto, con la riduzione dei salari massimi che permette una creazione di posti di lavoro, attraverso il meccanismo inverso rispetto all’effetto dovuto al salario minimo.
Certo il salario minimo non può essere considerato la panacea di tutti i mali, soprattutto in mercati del lavoro caratterizzati da un’alta disoccupazione o da un’elevata percentuale dei cosiddetti contratti atipici, con la conseguente esclusione di larghe fasce della popolazione da quel livello minimo di salario, ma sarebbe già un buon inizio. Forse un punto di partenza in vista del reddito minimo garantito?
[i] Il tasso di disoccupazione è dato dal numero di persone disoccupate come percentuale della forza lavoro, cioè la somma di occupati e disoccupati, in questo caso sulla popolazione di età 15-74 anni. Non è quindi una percentuale sul totale della popolazione, né tiene conto degli inattivi (in Italia circa il 36% della popolazione di 15-64 anni, ovvero in età lavorativa). Il caso italiano è ancora più singolare, perché le persone in cassa interazione ordinaria o straordinaria sono conteggiate tra gli occupati – essendo ancora a tutti gli effetti dipendenti della propria azienda – e non tra i disoccupati. Nell’industria, le ore di cassa integrazione ad ottobre 2012 erano 81.2 per ogni 1,000 ore lavorate, con un aumento del 12.5% rispetto all’anno precedente.
[ii] L’Eurogruppo fu creato contestualmente alla moneta unica come assemblea informale – seppur poi codificata da un Protocollo del Trattato di Lisbona – tra i ministri delle finanze dei paesi della zona euro. La carica di Presidente, introdotta dal 1° gennaio 2005, finora è stata sempre ricoperta da Jean-Claude Juncker, primo ministro e ministro delle finanze del Lussemburgo.