ECONOMIA: Tobin tax, l'Europa dice sì

La Commissione europea ha dato il suo benestare alla richiesta avanzata da dieci Paesi membri (Germania, Austria, Francia, Belgio, Portogallo, Slovenia, Grecia, Italia, Spagna e Slovacchia) sull’introduzione della Tobin Tax, ossia la tassa sulle transazioni finanziarie, che potrebbe generare 10 miliardi di euro l’anno. Si tratta di un passo importante e necessario per l’evoluzione di questo progetto che si inserisce in quello più ampio di cooperazione finanziaria, anche se non tutti i Paesi dell’Unione sono concordi. Anzi alcuni Paesi, come la Gran Bretagna hanno respinto la possibilità di introdurre tale imposta, mentre altri come la Svezia e la Polonia hanno espresso la loro contrarietà in quanto temono una fuga di capitali. Oggi Bruxelles ha constatato che tutte le condizioni legali sono state rispettate per autorizzare questi dieci Paesi, tra cui l’Italia, a proseguire sulla strada della Tobin Tax.

C’è chi dice no

La posizione inglese è più che comprensibile, il Paese ha ormai perso capacità industriale e manifatturiera a tutto vantaggio della Germania, motore industriale del vecchio continente, e gran parte delle ricchezze del Regno Unito derivano dalle transazioni della City londinese, vera capitale finanziaria d’Europa. Tassare questa gallina dalle uova d’oro sarebbe per gli inglesi pura follia. La Polonia, per tornare alla nostra area d’interessi, ha un’economia in espansione e sta diventando una mèta d’investimenti privilegiata: il timore di una fuga di capitali è più che comprensibile. Più interessante il caso svedese: nel 1984 Stoccolma promosse l’applicazione di una tassa simile ma i risultati furono scarsi, gli incassi furono del 75% inferiori rispetto alle attese e nel 1992 la tassa venne cancellata. Questa volta però la Tobin Tax andrebbe ad applicarsi su un’area ben più grande, ma gli svedesi si sono già bruciati una volta e non ne vogliono sentire riparlare. Almeno per ora.

Cos’è la Tobin Tax

La Tobin Tax prende il nome dal premio Nobel per l’economia James Tobin, che la propose nel 1972. E’ una tassa che prevede di colpire tutte le transazioni sui mercati valutari per stabilizzarli (penalizzando le speculazioni valutarie a breve termine), e contemporaneamente per procurare entrate da destinare alla comunità internazionale, in modo da fronteggiare così eventuali crisi economiche o aiutando i Paesi in via di sviluppo.

L’aliquota proposta sarebbe tra lo 0,05% e l’1%. I suoi sostenitori affermano che ad un tasso dello 0,1% la tassa Tobin garantirebbe ogni anno all’incirca 166 miliardi di dollari, il doppio della somma annuale necessaria per sradicare dal mondo la povertà estrema. Ma i suoi detrattori, citando ad esempio il caso svedese, la ritengono inefficace almeno finché non dovesse diventare una “tassa globale”, la qual cosa pare al momento piuttosto ardua. A proposito di globalizzazione, per ironia della sorte questa proposta “globalizzante” è stata “presa in ostaggio” (parole dello stesso Tobin) dal movimento no-global. Segno che la globalizzazione economica è ormai irreversibile e la necessità di regolamentarla viene prima delle utopiche velleità di cancellarla.

Soldi soldi soldi, ma che farne?

Tornando all’Europa, i dieci paesi che ne hanno chiesto l’applicazione rappresentano due terzi dell’economia dell’Unione. La Commissione ritiene che il rischio di spiazzamento dei dieci Paesi rispetto ai Paesi che non aderiscono sia limitato. Quanto potrà derivare dalla tassa non è chiaro visto che dipende dalle scelte sulle aliquote e sulle attività da tassare: la proposta originaria della Commissione prevedeva una tassa su tutte le transazioni effettuate tra istituzioni finanziarie (banche, società di investimento, compagnie di assicurazioni, hedge fund), 0,1% sugli scambi di azioni e obbligazioni, 0,01% sugli scambi sui derivati. La tassa si applicherebbe se almeno uno dei soggetti è stabilito nell’Unione, anche se la transazione avviene fuori dai confini Ue. Se la Tobin Tax fosse introdotta in tutta l’Unione i proventi sono calcolati in 57 miliardi l’anno.

Non è però chiaro come verranno utilizzati quei soldi. E qui casca l’asino. La speranza è che vadano a rilanciare lo sviluppo e l’occupazione e non a ingrassare la macchina burocratica mangiasoldi di Bruxelles. Ma questa è un’altra storia

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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