autarchia militare
HMNZS Canterbury loading Army vehicles in the port of Napier.

La scommessa (vinta) della Turchia sull’autarchia militare

L’aumento dei conflitti in tutto il pianeta ha fatto bene all’industria della difesa turca che nel 2023 ha superato la cifra record di 10 miliardi di dollari di contratti per l’export di armi. Sebbene la trasformazione dell’industria degli armamenti del Paese anatolico non sia esclusivamente associata alla volontà del Presidente Erdoğan, (l’impulso politico ad aumentare le capacità produttive nazionali risale, infatti, alla metà degli anni ’70 e trova una sua causa scatenante nelle sanzioni e negli embarghi imposti dai governi occidentali, in particolare dalle amministrazioni statunitensi), l’attuale successo del complesso militare-industriale risponde ad un’esplicita strategia politica implementata nell’Era Erdogan e finalizzata al raggiungimento dell’autarchia militare.

Una cifra record di 10.2 miliardi di dollari di fatturato messi a bilancio nell’ultimo anno con contratti di fornitura per 230 tipi di armi e munizioni siglati con oltre 185 Paesi stranieri. Oltre a certificare il definitivo salto di qualità compiuto dall’industria bellica turca negli ultimi anni, questi  numeri  dimostrano che le intuizioni del Presidente Recep Tayyip Erdoğan nell’inseguire l’autarchia militare erano sostanzialmente corrette. E infatti, da quando è stato eletto per la prima volta, nel 2002, il leader turco ha avviato una trasformazione radicale dell’industria degli armamenti finalizzata a centrare proprio questo obiettivo; nei vent’anni della sua presidenza, l’export delle armi turche è passato da 248 milioni di dollari  a 4.36 miliardi di dollari di fatturato, diventati 5.5 nel 2023 (+27%).

Erdogan ha rivoluzionato il complesso militare-industriale turco con grande costanza, abbondante utilizzo di slogan per il marketing e ottime capacità nel tessere rapporti diplomatici con i futuri acquirenti di armi a marchio “Made in Turkey”. Nell’ultimo decennio, il leader turco, non ha mai smesso di vestire i panni del commesso viaggiatore d’armi, impegnandosi a pubblicizzare l’affidabilità e la capacità produttiva dell’industria bellica nazionale mentre riduceva la dipendenza dalle importazioni di paesi stranieri.

La trasformazione dell’industria degli armamenti turca ha subito un’accelerazione a partire dal 2015, quando  un’impennata di investimenti ha favorito un significativo aumento dell’occupazione nel settore della difesa. Inseguendo l’autarchia militare, con la previsione concreta di rendere il Paese anatolico una “techno-nazione”, nell’area del Mediterraneo allargato Erdogan si è impegnato affinché la spesa per la difesa non venisse quasi mai influenzata negativamente da venti contrari, generati da “non ortodosse” sfide di politica monetaria e inflazionistica.

Lo sviluppo dell’industria militare turca

La trasformazione dell’industria degli armamenti turca in un complesso militare-industriale focalizzato sulla produzione interna va collocata in periodo anteriore all’avvento di Erdoğan. In principio, furono le  sanzioni e gli embarghi imposti dai governi occidentali – in particolare dalle amministrazioni statunitensi – i punti di innesco di questo processo. La svolta risale, infatti alla metà degli anni ’70 quando, a seguito dell’intervento militare della Turchia a Cipro, il Congresso degli Stati Uniti stabilì un embargo sulle armi che durò dal 1975 al 1978.

Negli ultimi trent’anni, l’altalena dei rapporti tra Turchia e NATO ha portato Ankara a ricalibrare sistematicamente la propria industria della difesa, agendo contestualmente su due aspetti cruciali: le risorse finanziarie e la volontà politica. Incanalando le prime verso il potenziamento della capacità produttiva nazionale e proiettando la seconda sull’ampliamento della manifatturiera locale, la resilienza del complesso militare-industriale turco è diventata negli ultimi vent’anni il tema dominante nella politica di Erdogan.

Per rendersi conto dell’impulso determinante dato dall’attuale Presidente turco al raggiungimento dell’autarchia militare, è utile prendere in considerazione la seguente traiettoria temporale. Nel 2001, prima dell’avvento di Erdogan, la spesa per la difesa turca nel bilancio centrale si attestava sui 7,22 miliardi di dollari; quasi due decenni dopo, nel 2019, quella cifra aveva raggiunto i 20,44 miliardi di dollari. In tempi recenti, la riallocazione dei fondi durante la pandemia di Covid19 ha fatto registrare una leggera flessione dei finanziamenti nel settore (diminuite a 15,48 miliardi di dollari nel 2021 e a 10,64 miliardi di dollari nel 2022). Ma dal 2023 i fondi sono tornati a crescere nuovamente attestandosi a 16 miliardi di dollari e si prevede che supereranno i 40 miliardi di dollari nel 2024, raggiungendo un livello record con un aumento annuo del 150% rispetto al 2023.

I progetti di armamento in Turchia sono sviluppati e prodotti sotto contratto dall’Agenzia statale per l’industria della difesa (SSB). Istituita nel 1985, l’agenzia ha il compito di finanziare gli investimenti nella modernizzazione delle forze armate turche. Registrata come holding che riporta direttamente a Erdoğan, la SSB è soggetta a direttive politiche. Ciò significa che le risorse della SSB vengono incluse nel bilancio annuale del ministero della Difesa e possono essere utilizzate come fondo di destinazione speciale.

Nell’ultimo ventennio l’aumento della spesa per la difesa è cresciuto di pari passo con la capacità manifatturiera nazionale. Nel 2016, l’industria della difesa turca ha dato lavoro a 35.502 persone; tre anni dopo, il loro numero è salito a 73.771; e alla fine del 2022 erano 81.132 i lavoratori impiegati nell’indotto della produzione militare nazionale. Secondo i dati diffusi dal governo, nell’ultimo anno i componenti prodotti in Turchia hanno rappresentato l’80 per cento della produzione totale nel settore degli armamenti superando il record per il 2022, quando la quota era stata del 73 per cento.

Dove finisce la propaganda e inizia la politica

Nel proiettare concretamente la narrazione della Turchia come “tekno-nazione”, Erdogan non si è mai cullato sulla retorica e le vuote astrazioni, ma è sempre rimasto ancorato proficuamente al prosaico e all’immediato. Lo dimostra, ad esempio, la sistematica campagna di reclutamento di ingegneri specializzati, sviluppatori di software ed esperti di marketing messa a segno nei vivai delle università nazionali o estere e diventata centrale per il raggiungimento dell’autarchia militare turca. Ci sono poi le fiere aerospaziali e tecnologiche che si tengono in tutto il paese e che attirano milioni di visitatori ogni anno; è grazie ad esse che  le aziende della difesa turche potenziano i canali di connettività tra i poli di innovazione e l’esecuzione aziendale sia in patria che all’estero.

D’altronde, la stretta relazione tra i legami istituzionali e la loro promozione pubblica, è ciò che ha consentito ad Erdoğan e ai produttori di armi di presentare il complesso militare-industriale come componente essenziale della società e dell’economia turche. Simbolicamente, il raggiungimento dei risultati del settore della difesa ha un duplice ruolo propagandistico per Ankara: innanzitutto, dimostrare che il comparto della produzione militare turca è in grado di produrre grandi volumi di armamenti da esportare; e in secondo luogo, ricordare all’opinione pubblica che quei sistemi d’arma sono in grado di tener testa ai gioielli della tecnologia degli altri paesi esportatori (inclusi i partners della NATO).

Ma non sempre propaganda e politica procedono di pari passo. L’architettura dell’ecosistema dell’innovazione predicato da Ankara  rileva alcuni punti deboli che fanno apparire la politica di difesa e sicurezza turca meno forte di quanto la retorica di Erdogan vorrebbe effettivamente dimostrare. La difficoltà primaria è senza alcun dubbio legata alle criticità del complesso militare-industriale turco, nel reperimento delle fonti energetiche interne e nelle tecnologie necessarie per la costruzione dei sistemi d’arma. Infatti, mentre  l’autonomia nella produzione degli armamenti viene perseguita dai responsabili delle politiche industriali, i produttori turchi sono costretti a fare affidamento su importazioni cruciali di hardware e software.  Questa dipendenza, non consente alla Turchia di tenere il passo di esportatori di primo piano come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, soprattutto in presenza di shock economici asimmetrici e tensioni geopolitiche.

I droni come apripista

Una componente chiave della politica militare-industriale della Turchia è sicuramente la produzione e l’esportazione di droni da combattimento TB2 prodotti dalla azienda Baykar. I velivoli senza pilota prodotti dall‘ambizioso e brillante ingegnere Selcuk Bayraktar, marito della figlia minore del Presidente Erdogan, volano attualmente in 30 paesi in tutto il mondo: dall’Africa all’Asia Centrale, passando per il Baltico e il Caucaso, fino ai Balcani e al Medio Oriente. Anche le forze armate ucraine  hanno scelto di affidarsi ai TB2 turchi per maciullare gli invasori russi. Nel febbraio 2022, nelle prime fasi della guerra, i droni Bayraktar hanno svolto un ruolo chiave nell’arrestare l’avanzata dei carri armati del Cremlino verso Kiev.

Sempre nel 2022, anche gli Emirati Arabi Uniti  hanno deciso di investire sui velivoli senza pilota di fabbricazione turca, acquistandone 120 esemplari. Tra le Monarchie del Golfo è stato poi il turno del Kuwait che nel gennaio 2023 ha siglato un contratto del valore complessivo di di 370 milioni di dollari per una fornitura di TB2. Di recente anche l’Arabia Saudita  ha raggiunto un accordo con Baykar per il drone Bayraktar Akinci del valore di oltre 3 miliardi di dollari, il più grande contratto di difesa nella storia della Turchia. L’ultimo Paese in ordine di tempo a garantirsi la potenza di fuoco degli efficientissimi droni turchi, è stato l’Egitto. Attraverso la fornitura di TB2, il Cairo ha suggellato la ritrovata normalizzazione dei rapporti con Ankara in un’intreccio fruttuoso fatto di politica militare-industriale e mediazione diplomatica.

In questi anni i TB2 hanno fatto da apripista per la vendita di sistemi d’arma turchi, agevolando l’accesso delle aziende del settore ai mercati internazionali. Nel 2023 sono stati più di 185 i paesi che hanno acquisito hardware e servizi militari dalla Turchia. Con la commercializzazione su vasta scala di questi sistemi a pilotaggio remoto, Ankara ha lanciato la sfida alla posizione precedentemente dominante della Cina nel segmento degli unmanned aerial vehicle (UAV). Sul piano geopolitico, gli ottimi risultati ottenuti dal comparto della difesa turco, hanno determinato la ricalibrazione geografica dei partenariati strategici del Paese anatolico che ha forzato la mano nei confronti dei partners della NATO spingendo per una rivalutazione dei suoi obblighi nei confronti dell’Alleanza. Il disegno dell’autarchia militare inseguito da Erdogan, sempre più proiettato verso lo sviluppo interno e la capacità manifatturiera locale, ha spinto infatti diversi paesi membri della NATO a riconsiderare con maggiore attenzione la determinazione della Turchia ad affermarsi come produttore di armamenti a livello internazionale.

Attualmente, Ankara partecipa a numerosi  progetti di difesa e sicurezza basati su joint venture con partner della NATO. NATO-INTEL-FS2 è uno di questi, per il quale la società turca STM sta sviluppando l’intero software che supporterà l’infrastruttura di ricognizione della NATO. Tuttavia, le relazioni eccessivamente flessibili della Turchia con Russia e Cina, e l’obiettivo perseguito da Erdogan di usare le esportazioni di armi come leva strategica indiscriminata per favorire l’espansionismo turco – coinvolgendo anche paesi con cui altri membri della dell’Alleanza sono riluttanti a cooperare – rendono estremamente complessi rapporti tra Ankara e la NATO.

Orientata al perseguimento di politiche sempre più influenzate da un revisionismo storico di stampo neo-ottomano, la Turchia si conferma un soggetto geopolitico complesso, abituato a muoversi su più finestre di opportunità come dimostra la recente esperienza della guerra tra Russia e Ucraina. Dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, il rifiuto di adottare sanzioni contro Mosca al di fuori del quadro delle Nazioni Unite ha sicuramente aumentato le distanze tra Ankara e la NATO, ma non ha comunque impedito a Erdogan di offrirsi come mediatore del conflitto, divenendo un attore chiave nelle trattative che hanno portato nel luglio del 2022 al via libera per l’esportazione sicura delle spedizioni di grano ucraino dai porti del Mar Nero, grazie ad accordi separati con Kyiv e con Mosca, garantiti dalle Nazioni Unite.

Pertanto, nel contesto molto più ampio e complesso dell’interoperabilità della NATO, in un momento cruciale per le sorti dell’Europa e della stessa Alleanza,  Erdogan sa bene quanto la presenza della Turchia nei sistemi militari-industriali guidati dagli Stati Uniti risulti decisiva. Nel ridefinire le priorità degli interessi geostrategici di Ankara, in questi anni Erdogan non ha mai smesso di ricordare agli alleati della NATO che la potenza militare e le esportazioni di sistemi d’arma turche possono facilitare o complicare le relazioni bilaterali con l’Alleanza; in questo modo, il leader turco è riuscito a rivendicare per sé maggiore libertà nel perseguimento dei partenariati strategici in Africa, Asia centrale e in Medio Oriente.

 

Chi è Tommaso Di Caprio

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