Intervista a Marko Vidojkovic, scrittore e giornalista serbo in esilio

Qualche mese fa, lo scrittore e giornalista Marko Vidojkovic è stato costretto a lasciare il suo paese, la Serbia, in seguito a gravi e continue minacce dirette a lui e alla sua famiglia.

Vidojkovic ha scritto decine di romanzi (qualche anno fa recensimmo “Ma grazie tante!”), è editorialista del quotidiano Danas e del portale Buka, e conduce insieme a Nenad Kulacin un podcast molto seguito: Dobar Los Zao (DLZ), ovvero “Il buono, il brutto e il cattivo”). I suoi editoriali, così come molti dei suoi libri, criticano apertamente e in modo irriverente la situazione sociale e politica della Serbia del presidente Aleksandar Vucic e la deriva autoritaria del suo governo. A causa del suo attivismo e del suo impegno da dissidente, Vidojkovic sostiene che il regime serbo sia direttamente responsabile per chi l’ha minacciato ed intimidito, essendo stato pubblicamente criticato sia da Vucic che dalla premier Ana Brnabic.

Per aiutare lo scrittore si sono mosse diverse organizzazioni a difesa della libertà di pensiero, a partire dal PEN International, che ne ha assicurato il trasferimento in un luogo sicuro e la possibilità di continuare a scrivere e a lavorare. East Journal ha intervistato Marko Vidojkovic, a cui va la solidarietà della nostra redazione.

Marko, puoi riassumerci cosa è successo e se ora ti trovi al sicuro?

Per anni, a causa delle critiche al governo, sono stato vittima di costanti attacchi di propaganda da parte dei media di regime, che sono stati poi accompagnati da brutali minacce di omicidio e da migliaia di terribili insulti. Per tutto il 2021 e il 2022, anche mia moglie e mia madre sono state vittime di minacce e insulti, e la situazione è degenerata al punto che io e mia moglie per quasi due anni non siamo usciti di casa, così come ci raccomandavano le organizzazioni in difesa dei giornalisti. A fine 2022 la situazione era così grave che ho pensato che la mia vita e quella della mia famiglia fossero in grave pericolo, e che dovevo urgentemente chiedere aiuto ad alcune organizzazioni internazionali. Ho lasciato il paese e oggi mi sento relativamente al sicuro, certamente più sicuro che in Serbia.

Pensi che il governo serbo abbia responsabilità per le minacce che hai ricevuto?

Il governo non nasconde affatto la propria responsabilità nelle campagne che conduceva contro di me. Il presidente e la premier in più occasioni mi hanno insultato ed additato come traditore sulle televisioni nazionali; il ministro degli Interni, nell’estate del 2021, ha minacciato di arrestarmi per quello che dico nel mio podcast, e l’attuale sindaco di Belgrado ha minacciato di morte me e Nenad [Kulacin, ndr], nel programma televisivo che va in onda la mattina su Pink [un’emittente filogovernativa]. Il modus operandi è sempre lo stesso: i vertici del regime o i suoi media mi prendono di mira, a volte addirittura senza una ragione specifica, e poco dopo iniziano sia il linciaggio di massa sia le intimidazioni da parte dei sostenitori del regime.

Qual è stata la reazione delle autorità competenti e chi ti ha aiutato?

La reazione delle istituzioni pubbliche è, ovviamente, mancata. Delle decine di minacce di morte so di una sola ammissione di colpa e di una sentenza con il minimo della pena per una persona che credo sia un capro espiatorio, anche perché all’udienza non ero stato invitato nonostante fossi la parte lesa, e poi perché non mi è stato dato accesso a tutti i documenti probatori.

Per questo motivo ho deciso di rivolgermi all’ambasciata della Svezia, che attualmente detiene la presidenza UE, nonché ad altri diplomatici dei Paesi Bassi e del Canada a Belgrado, affinché PEN International si interessasse al mio caso. È stato subito constatato che io e mia moglie dovevamo essere trasferiti, perché potevamo essere vittime di omicidio e, anche grazie all’aiuto di altre organizzazioni, il trasferimento è stato organizzato nel giro di poche settimane. PEN International si prende cura di me da tre mesi e sono infinitamente grato a questa organizzazione, perché ha reso la mia vita meno complicata.

Nonostante tutto, continui a condurre il podcast (da remoto) e a scrivere articoli: ti senti al sicuro?

Non direi “nonostante tutto”, bensì proprio grazie al trasferimento continuo a condurre il podcast DLZ via Skype e a scrivere gli editoriali per Danas. Gli esperti internazionali sostengono che il podcast che conduco è la trasmissione che il regime serbo odia di più, sebbene sia visibile solo su internet e che ogni puntata abbia mediamente un pubblico di circa 100mila spettatori.

Il mio collega Nenad è dovuto rimanere in Serbia e, qualche settimana fa, all’incontro con le organizzazioni internazionali che tutelano i giornalisti gli è stato detto che è uno dei giornalisti del paese maggiormente in pericolo. Se io non fossi stato trasferito e se l’ex presidente Boris Tadic durante il telegiornale della Nova S [emittente non allineata] non ne avesse parlato in termini allarmanti, forse sarebbe successo qualcosa a Nenad. Se a dicembre non avessi reagito per tempo, considerato quanto è abietto il regime, sono quasi sicuro che uno di noi due sarebbe morto.

Al momento mi sento sicuro, anche se questo non significa che io vada in giro come se niente fosse. Non sono del tutto libero, devo stare attento quando uso il cellulare, devo segnalare ogni telefonata sospetta, ogni auto o persona che incrocio che desta sospetti. Il PEN, che nel 2022 ha inserito il mio tra i 115 peggiori casi al mondo di intimidazione contro chi si batte per la libertà di parola, ha capito perfettamente sia il pericolo in cui mi trovo sia la protezione di cui necessito.

Che piani hai per il futuro, pianifichi di tornare in Serbia?

Io non faccio piani, per ora ho capito che è molto meglio avere desideri. Il mio primo desiderio, ovvero continuare a scrivere in prosa, si sta già realizzando. Dopo un po’ di anni ho scritto diversi racconti, e spero di riprendere il romanzo che avevo iniziato l’anno scorso in Serbia, prima che venissero meno le condizioni per scrivere a causa del clima di terrore psicofisico in cui vivevo. E non vorrei fermarmi solo ai racconti e ai romanzi, vorrei scrivere il più possibile e recuperare il tempo perso in Serbia.

Ed è per questo che per me la Serbia rappresenta un posto orrendo e un brutto ricordo. Non c’è più niente di bello in Serbia. È un paese inquinato, in tutti i sensi. Le persone migliori o sono morte o se ne sono andate, e quei pochi che combattono che sono rimasti si trovano in condizioni pessime, esattamente le stesse in cui mi trovavo io. Dalla Serbia, mentalmente, non me ne sono andato, mentre fisicamente l’ho appena lasciata. Continuerò a scrivere editoriali e a girare il podcast fintanto che il pubblico desidera questo da me e fintanto che io ritengo che ciò abbia senso. Non credo che, da qui ai prossimi anni, la situazione in Serbia possa migliorare al punto da farmi tornare volontariamente.

Scriverai un libro su quello che hai passato?

Avevo un’idea, insieme al mio collega Nenad, di scrivere un romanzo autobiografico sul nostro podcast, perché anche prima di questo periodo è stata una grande avventura. Evidentemente, il romanzo si sta scrivendo da solo, mentre viviamo, ma non so dire se e quando lo metterò finalmente nero su bianco. Era più facile sviluppare questa idea mentre si era nella prigione Serbia, mentre adesso preferirei dimenticare quel che è successo e ciò che ha portato dolore a me e alla mia famiglia. Non ho nessuna voglia di scriverne.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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