Divario ecologico

Il divario ecologico dentro l’UE, una nuova divisione fra est e ovest?

Sono tra i maggiori inquinatori, ma anche riluttanti ad applicare le normative europee sulla transizione ecologica. Perché esiste un “divario ecologico” all’interno dell´UE? Un longread a firma di Eugenia Scanferla

Nel luglio del 2019, Ursula von der Leyen ha presentato alla Commissione Europea il Green Deal, un pacchetto di direttive mirate ad azzerare entro il 2050 le emissioni nette di gas a effetto serra. Inizialmente, la Repubblica Ceca, l’Estonia, l’Ungheria e la Polonia si sono rifiutate di firmare; la Polonia, da sola, ha resistito ancora fino al dicembre 2019. Uno scenario simile si è ripetuto con il pacchetto “Fit for 55%”, proposto nel 2021, che prevede la revisione delle normative nazionali in materia di clima, energia e trasporti, al fine di allineare le leggi attuali agli obiettivi climatici del Green Deal e di tagliare del 55% le emissioni CO2 entro il 2030, per poi raggiungere la neutralità nel 2050. Di nuovo, l’Unione Europea ha dovuto fare i conti con le resistenze dei suoi paesi membri centro-orientali, con la Polonia in testa.

Presentazione del Green Deal europeo, fonte UE

Le regioni europee più colpite

In tema di politiche climatiche, sono le regioni più arretrate: Polonia, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria occupano il quartile più basso nella classifica della transizione energetica dei paesi dell’UE (Energy Transition Index). Delle dieci città europee più inquinate sei si trovano in Polonia, una in Croazia, una in Bulgaria e due in Italia (!); Cracovia, il 15 dicembre scorso, risultava addirittura la città più inquinata al mondo, registrando un livello di polveri sottili superiore anche a quello di Lahore o Nuova Delhi. Di conseguenza, il tasso di morti premature dovute a fattori ambientali è molto più alto che in Europa nordoccidentale. Un sondaggio dell’Eurobarometro del 2019 ha mostrato che, mentre il 50% degli svedesi considera il cambiamento climatico la questione più immediata da affrontare, solo il 10% dei bulgari è d’accordo. La maggior parte dei polacchi e ungheresi ha altre preoccupazioni. Esiste insomma un “divario ecologico” tra i paesi nord-occidentali dell’Europa e quelli centro-orientali (e sud-orientali), con i primi molto più sensibili a questioni ambientali e con migliori risultati in materia di transizione ecologica, e i secondi più arretrati, più colpiti da problemi correlati all’inquinamento, eppure meno “impegnati” a risolverli.

Tasso di morti premature, fonte European Environment Agency (EEA)

La “maledizione” del carbone

Le cause del costante “freno” da parte di questi paesi alle normative europee sono molteplici. Innanzitutto, il carbone. Il massiccio inquinamento nell’Europa centro-orientale, e in particolare in Polonia, è dovuto al fatto che la regione dipende ancora significativamente da quella fonte di energia fossile; e se nel Green Deal europeo la transizione energetica dal carbone al rinnovabile rappresenta la priorità assoluta, in Polonia il carbone soddisfa tuttora fino all’80% del fabbisogno energetico del Paese. La produzione locale ammonta a circa il 95% della produzione europea complessiva (Eurostat). Un totale di circa 80.000 persone lavora nell’industria mineraria (per quanto si tratti di un numero quattro o cinque volte inferiore rispetto ai picchi del passato). Emblematico della pesante dipendenza polacca dal carbone è il recente incidente diplomatico riguardante la miniera di Turów, che solo qualche giorno fa è stato risolto con un accordo bilaterale tra Repubblica Ceca e Polonia.

Lavoratori alla miniera di Turow (2013), foto Wikimedia Commons

Diversi punti di partenza, diverse priorità

Alla problematica del carbone si aggiunge il diverso livello di sviluppo tra le regioni: molti paesi membri si mostrano riluttanti a rallentare il proprio sviluppo economico – ancora molto arretrato rispetto ai paesi dell’Europa occidentale – nel nome della lotta ai cambiamenti climatici. “Le nostre vere priorità (…) sono la costruzione di infrastrutture come le autostrade, la modernizzazione delle ferrovie, il sistema sanitario e il sistema educativo. Tutti questi settori sono sottofinanziati. No, non possiamo compromettere i nostri progetti infrastrutturali per un Green Deal di stampo UE, semplicemente perché questi progetti sono un elemento chiave per il nostro sviluppo”, sostiene, in un´intervista del 2020, l´ex presidente rumeno Traian Băsescu riguardo al suo paese. C’è una discrepanza considerevole tra le priorità di Germania o Francia e quelle, per esempio, di Romania e Bulgaria: il proprio sviluppo economico e la difesa dell’occupazione vengono anteposti alle misure di transizione ecologica, ritenute ostacolo alla crescita e percepite quasi come manifestazione di arroganza occidentale, che finge di ignorare i diversi punti di partenza dei paesi membri. Questa critica è giustificabile fino ad un certo punto, perché strategie come il Just Transition Mechanism (JTM) dell´UE è stato ideato proprio per garantire ai suoi stati membri più riluttanti che la transizione verso un’economia neutrale per il clima avvenga in modo equo. Tenendo conto delle maggiori difficoltà di alcune regioni, come quelle carbonifere polacche, il Just Transition fund fornisce loro un sostegno aggiuntivo di 55 miliardi di euro nel periodo 2021-2027, per alleviare l’impatto socioeconomico della transizione.

Centrale di Turow – Wikimedia Commons

 

La retorica populista e l’assenza di voci “ambientaliste”

In vari paesi dell’Europa centro-orientale, il timore di ricadute economiche e sociali sulle classi medie e basse è forte, anche perché tocca il bacino elettorale dei partiti conservatori al governo. Per esempio, nel pacchetto “Fit for 55” si prevede, tra le altre misure, di estendere ai trasporti e agli edifici il sistema dello scambio di emissioni, una delle principali misure dell’UE per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra; con ricadute economiche anche sulle famiglie, che vedrebbero aumentare sensibilmente le spese annue per carburante e riscaldamento. Nei circoli “populisti” di Viktor Orbán o di Jaroslaw Kaczyński, il cambiamento climatico viene dunque dipinto come una preoccupazione ideologica delle élite radical-chic, che puntano a una “dittatura dei ciclisti e dei vegani”. La politica climatica dell´UE sarebbe una “fantasia” responsabile di “far schizzare i prezzi alle stelle e distruggere la classe media” (Orbán); una nuova “religione verde” (dichiarazione del vice-primo ministro polacco Jacek Sasin) che minaccia le economie dei paesi. E se, in Europa centro-orientale, i partiti politici di sinistra sono in declino, quelli di stampo ambientalista sono pressoché inesistenti. Nuove formazioni politiche progressiste, come i Pirati nella Repubblica Ceca, Nowa Lewica in Polonia o Progresívne Slovensko in Slovacchia sostengono una politica verde, ma raggiungono un elettorato molto ristretto, per lo più concentrato nelle città e maggiormente istruito. Le tematiche ambientali investono un ruolo estremamente marginale nel dibattito pubblico. Non è sempre stato così.

Le prime generazioni di ambientalisti “patriottici”

Negli anni ‘80 (e in particolare dopo la tragedia di Černobyl’), numerosi movimenti ecologisti nascevano in tutto l’allora “blocco dell’est”, giocando un ruolo importante nei movimenti democratici che portarono alla caduta dei regimi comunisti. Dalle proteste di singoli gruppi di cittadini, come le “madri di Ruse” (la città bulgara avvelenata da un impianto chimico) o i polacchi che contestavano la costruzione di quella che sarebbe dovuta diventare la prima centrale nucleare del paese, a Żarnowiec, sono scaturiti movimenti di massa attivi e organizzati – come Ecoglasnost in Bulgaria, Duna Kör (“Circolo del Danubio”) in Ungheria, il Club Ecologico Polacco (PKE), il  (Club di Protezione Ambientale) in Lettonia. Lottavano contro il degrado ambientale e la distruzione del paesaggio, opponendosi a centrali nucleari, miniere, impianti idroelettrici. Questioni ambientali si intrecciavano con le istanze antiautoritarie e antisovietiche: la distruzione dell’ambiente, dovuta a industrializzazione irresponsabile e a strutture retrograde, veniva denunciata da questa prima generazione di attivisti come una delle catastrofiche conseguenze del sistema comunista. Così, la lotta per il proprio paesaggio faceva parte, in un certo senso, della lotta per l’indipendenza e la sovranità del proprio paese.

Manifestazione di Ecoglasnost (1989), foto di Tsvetan Tomchev

Paralleli storici

Quando la Polonia o l´Ungheria si sentono minacciate nella loro sovranità nazionale, affiora  spesso il paragone con l´oppressione sovietica: nelle dispute sullo stato di diritto e sull’ egemonia del diritto europeo, Bruxelles come la nuova Mosca che comanda sui suoi stati membri e mina la sovranità nazionale. Oppure Bruxelles come una banda di “comunisti” che frenano le economie nazionali con misure ideologiche e costose, nel nome di un’emergenza climatica inventata o, quanto meno, esagerata. L’argomento principe dei conservatori, la “sovranità”, si rispecchia anche nelle politiche ambientali, nella cui narrazione gli interventi in difesa della natura sembrano assumere il significato di “amore per la patria”. Quando si tratta di tradurre in politiche specifiche problemi sovranazionali, come la lotta al cambiamento climatico, emergono maggiore scetticismo o aperta opposizione a regolamenti “imposti dall’alto”.

Uno scontro non sostenibile

Le resistenze di alcuni paesi dell’Europa centro-orientale vengono da più parti interpretate come tentativo di ricevere una fetta maggiore dei finanziamenti: una strategia spesso di successo. Nonostante le polemiche, d’altra parte, anche a Varsavia (e altrove) è ben chiaro che i rapporti di forza, nel braccio di ferro con l’Unione Europea, sono sbilanciati: paesi come la Polonia hanno urgentemente bisogno dei fondi per la ripresa post-pandemica, e la conditio sine qua non per la ricezione di tali fondi è l’investimento nell’economia green. Il richiamo, contenuto nelle clausole del Recovery Fund al rispetto dello Stato di Diritto (monito rivolto non troppo velatamente a Polonia e Ungheria), costituisce indubbiamente un elemento di ulteriore tensione, ma è chiaro che lo scontro frontale con Bruxelles non sarà sostenibile a lungo termine. Verrebbe anzi da chiedersi se i milioni che la Polonia sta attualmente accumulando in multe e sanzioni europee non sarebbero meglio investiti nella – certamente complicata, ma necessaria – transizione energetica.

Chi è Eugenia Scanferla

Ha studiato Scienze Politiche all'Università di Bologna e Storia dell'Europa Orientale all'Università di Bielefeld (Germania). Si occupa di storia del dissenso, ecologia e movimenti ambientalisti in Est Europa, politiche e culture della memoria nello spazio post-sovietico. Attualmente vive a Berlino.

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