BIELORUSSIA: La questione linguistica che regalò il potere a Lukashenko

Speciale dedicato al trentennale della dissoluzione dell’Unione Sovietica in collaborazione con Q Code

Molti non sanno che a regalare il potere a Lukashenko fu il sentimento nostalgico su cui fece presa, con argomentazioni populistiche, nei primi anni dopo la caduta dell’URSS, e in particolare riguardo la questione linguistica e il ripristino del bielorusso come unica lingua di stato.

Per tentare di raccontare gli anni della Perestrojka in Bielorussia è fondamentale analizzare il ruolo che la lingua e la coscienza nazionale hanno avuto nella transizione e che hanno portato, pur in maniera indiretta, alla vittoria e alla conferma di un outsider della politica, Aleksandr Lukashenko, considerato oggi l’ultimo dittatore d’Europa. 

Descrivere il contesto della Bielorussia sovietica richiederebbe una lunga analisi, ma soffermandosi solo sulla questione linguistica si può affermare che, nonostante il paese fosse neonato e caratterizzato da confini molto labili ancora nella prima metà del Novecento, il bielorusso fosse considerato la vera lingua nazionale. Questo sentimento identitario mal si coniugava con i piani dell’Unione Sovietica, e per questo la Bielorussia fu tra le repubbliche che subirono maggiori repressioni: non soltanto da parte dell’NKVD, con eccidi ed esecuzioni di massa in particolare negli anni Trenta, ma anche con una soppressione totale della cultura bielorussa, lingua compresa. 

Il bielorusso, lingua delle campagne durante l’URSS

Così, ancora negli anni Ottanta il bielorusso era parlato da pochissime persone – circa un terzo della popolazione – e solo il 5% dei media in circolazione era edito in bielorusso. A parlare la lingua madre erano soprattutto le fasce più rurali e quindi gli abitanti della campagna, gente per lo più con un’età media superiore ai quarant’anni: la Bielorussia degli anni precedenti la caduta dell’URSS era ultima in classifica tra le repubbliche sovietiche per cittadini che parlavano nella vita quotidiana la lingua natia. 

Per questo, quando dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica si impose il ripristino del bielorusso – insieme ai simboli nazionali, la bandiera bianco-rosso-bianca e la Pagonia, l’emblema pre URSS, il paese si ritrovò nel caos linguistico più totale.

Gli intellettuali in prima linea

Già prima dell’avvento del Fronte Popolare Bielorusso – il movimento rispolverato da Zianon Pazniak, l’archeologo che aveva scoperto le fosse comuni di Kuropaty nel 1988 – un gruppo di ventotto scrittori bielorussi aveva inviato una lettera aperta a Michail Gorbačev per esporre nei dettagli la russificazione subita dalla Bielorussia a partire dagli anni Trenta. All’interno del documento si denunciava il fatto che il bielorusso fosse inesistente nei documenti ufficiali, che i libri fossero scritti solo in russo, che nei luoghi di lavoro si parlasse soltanto russo. A Gorbačev venne chiesto di reinserire il bielorusso nella vita pubblica e di prevedere un esame di lingua e letteratura bielorusse per gli studenti delle scuole superiori. 

A fine anni Ottanta, quindi, erano già molti i rappresentanti dell’intelligentsia che rivendicavano la rinascita del bielorusso e un ripristino della cultura nazionale: sulla scia della Perestrojka, nonostante a Minsk non fosse vista di buon occhio, nacquero così club, circoli, teatri e vennero addirittura organizzati i “giorni della lingua, della letteratura, della cultura e dell’arte bielorusse”.  

Il bielorusso si fa strada prepotentemente in un mondo “russo”

Nel 1989 venne fondata la Società della lingua bielorussa Franzisk Skarina e soltanto pochi mesi dopo il Soviet si vide costretto, sulle spinte di una parte di popolazione, ad adottare una legge in merito alle lingue della Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia. Fu così che, ancor prima del crollo dell’URSS, i bielorussi si ritrovarono con una nuova lingua di stato che in gran parte non conoscevano. 

Le conseguenze di queste scelte non furono però quelle sperate: da quel momento, il bielorusso entrò prepotentemente nelle vite di persone che non l’avevano mai parlato. Apparvero cartelli stradali, i documenti ufficiali furono redatti tutti in lingua bielorussa, al lavoro si iniziò a sostituire il russo con il bielorusso. Furono anni, quelli tra il 1990 e il 1995, che sconvolsero la popolazione, già alle prese con le difficoltà della caduta dell’URSS. 

I protagonisti della politica di quel periodo, i vecchi rappresentanti del partito, gli intellettuali come Shushkevič – primo capo di Stato dopo la caduta dell’URSS e scienziato – o come Pazniak, il fondatore del Fronte Popolare, avallarono questo cambiamento, a tratti incitandolo addirittura, certi che fosse un modo per garantirsi unità nazionale e cambiamento. Ma non fu così. 

Lukashenko, il salvatore

Non fu così perché quando si svolsero le prime elezioni presidenziali, nel 1994, nessuno dei candidati – Shushkevič, Kebič, Pazniak – si preoccupò della presenza di questo outsider, già membro del Soviet noto per le sue campagne anti-corruzione (contro gli stessi membri del partito e contro Shushkevič). 

La campagna elettorale di Lukashenko verteva proprio sui valori opposti a quelli degli altri candidati: un riavvicinamento alla Russia, culturale ed economico, una chiusura al liberismo promosso in quegli anni e un ripristino della situazione pre 1991, lingua russa compresa. Nessuno si accorse che, col suo populismo di uomo delle campagne, spingere sul sentimento nostalgico della popolazione sarebbe stata la chiave del successo. 

Dopo aver stravinto le elezioni presidenziali del 1994, probabilmente le uniche in cui si è guadagnato i voti dichiarati, Lukashenko fece quanto promesso: con un referendum del 1995 chiese ai bielorussi se volessero tornare alla situazione precedente. Più dell’80% dei votanti si espresse per mantenere entrambe le lingue. 

Fu grazie a questa mossa, il ripristino della vecchia cultura sovietica e il riavvicinamento soprattutto economico alla Russia, che Lukashenko si garantì sostegno per molti anni a venire, almeno fino all’arrivo delle nuove generazioni. 

Il fallimento dell’identità nazionale

Nonostante un forte senso di appartenenza alla nazione bielorussa, l’identità nazionale non fu abbastanza forte da rappresentare una valida alternativa all’ideologia sovietica. In particolare, il FPB, che aveva buone possibilità di conquistare una larga fetta di elettorato, mise in atto una retorica radicale che finì per spaventare la popolazione, ma anche una parte dell’élite. Quello di Pazniak fu un tentativo di imitare i fronti popolari che ebbero successo nelle repubbliche baltiche, ma non funzionò e anzi, in qualche modo, gli si ritorse contro. 

In un periodo di forti cambiamenti che necessitavano una transizione moderata e progressiva, Aleksandr Lukashenko gettò le basi per definirsi il bat’ka, il padre dei bielorussi, garantendosi appoggio per molto tempo. 

Si può quindi sostenere che la questione linguistica abbia avuto un ruolo preponderante nell’ascesa al potere di Lukashenko, così come il sentimento nostalgico per l’URSS. Ma oggi il bielorusso è rivendicato da buona parte della popolazione come unica lingua di stato e il retaggio sovietico è quasi del tutto sparito, complice anche il rinnovo delle generazioni. Per questo è sempre più difficile usare la retorica per restare al potere e le forti repressioni che i bielorussi subiscono dal 2020 ne sono la prova.

Chi è Anna Bardazzi

Nata nel 1982 a Prato, si è laureata in Scienze Politiche con una tesi sulla Bielorussia di Lukashenko. Dopo aver vissuto diversi anni all'estero è rientrata recentemente in Italia, dove si occupa di contenuti digitali e traduzioni. Il suo primo romanzo, La felicità non va interrotta, è uscito a marzo 2021, edito da Salani. Collabora con East Journal dal 2020.

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