Interno Sinagoga Sofia
L'interno della Sinagoga nella città bulgara di Sofia

Anche in Bulgaria parlano il ladino…ma non quello delle Dolomiti

In Bulgaria è ormai rarissimo sentirla parlare, ma appartiene al patrimonio culturale della storia squisitamente multietnica del paese: si tratta della lingua ladina (da non confondersi con l’idioma retoromanzo dolomitico), parlata dagli ebrei sefarditi che costituiscono una piccola minoranza anche in altri paesi dell’area dell’Europa sud-orientale tra cui Grecia, Turchia e Macedonia del Nord. Detta anche “giudeo-spagnola” o “judezmo”, questa lingua emerse, su base spagnola, in seguito all’insediamento degli ebrei provenienti dalla penisola iberica nei territori dell’Impero Ottomano e si arricchì nel tempo di termini ebraici, aramaici, turchi, arabi, francesi, italiani, bulgari e greci.

Verso una nuova Sefarad

Gli ebrei sefarditi (dalla parola ebraica per Spagna, “Sefarad”) giunsero nell’area balcanica a partire dal 1492, l’anno in cui furono espulsi dalla penisola iberica dai regnanti Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia a causa del loro rifiuto di convertirsi al cattolicesimo. Le autorità ottomane li accolsero in maniera benevola offrendo loro protezione e libertà religiosa. Fu così che molti si insediarono in Bulgaria, specialmente a Sofia, Plovdiv, Ruse, Varna, Burgas e Samokov, dove, grazie al mantenimento dei legami comunitari, la perdita della terra originaria venne sublimata attraverso lo sviluppo dell’idea di una “nuova Sefarad”. Nel corso dei secoli, i sefarditi preservarono un’identità culturale distinta, assieme alla loro lingua, che si impose come lingua franca per questa diaspora negli eterogenei territori balcanici e del Mediterraneo orientale.

Le sfide della sopravvivenza per la comunità ebraica bulgara

Nel XX secolo, la comunità ebraica contava circa 48.000 membri, un numero che rimase pressoché inalterato anche dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che lo stato bulgaro, pur alleato dei nazisti, si rifiutò di deportare la propria popolazione ebrea verso i campi di concentramento in Europa Centrale (seppure si rese complice dello sterminio di quella residente nei territori occupati greco-macedoni). Tuttavia, fra il 1948 e il 1949, più del 95% della popolazione ebraica bulgara decise di emigrare nello stato d’Israele appena fondato.

A distanza di circa settant’anni da quella storica ondata migratoria che privò il paese di un’essenziale forza intellettuale e socioeconomica, la lingua giudeo-spagnola di coloro che sono rimasti nel paese balcanico sta gradualmente scomparendo, al punto che l’Unesco la classifica come lingua altamente in pericolo. Tuttavia, fra i parlanti rimasti si avverte forte il desiderio di non lasciare andare per sempre questa lingua così rilevante per la storia della diaspora ebraica. Tale impulso è chiaramente manifesto a coloro che visitano la Sinagoga di Sofia, la più grande dell’intero sud-est europeo e la terza in Europa, che ha da poco festeggiato i 110 anni dalla sua inaugurazione.

Gli sforzi delle istituzioni ebraiche a favore del ladino a Sofia

Leon Benatov, guida della sinagoga della capitale bulgara e autorevole esponente della comunità, appartiene a una generazione nata ben prima che si avviasse l’ingente flusso migratorio verso Israele della maggior parte dei suoi parlanti. Esprimendosi in un ladino appassionato e colorito, racconta la storia dell’edificio religioso e della diaspora ebraica nella capitale, soffermandosi sulle sfide presenti in relazione alla sopravvivenza della lingua dei suoi antenati. Circa 3000 persone di origine ebraica vivono oggi a Sofia, altre 1500-2000 nel resto del paese, in particolare nella città di Plovdiv, dove si trova l’unica altra sinagoga operante in Bulgaria. Sul totale della popolazione ebraica bulgara, circa il 95% appartiene al ramo sefardita, mentre il restante 5% è ashkenazita. In Grecia i numeri complessivi sono leggermente più elevati (circa 6000 persone, concentrate soprattutto fra Atene e Salonicco), seppure molto inferiori a quelli della vicina Turchia dove abitano quasi 20.000 persone di origine sefardita (di cui il 95% residenti ad Istanbul). Ricordiamo invece che nella Macedonia del Nord la comunità conta oggi appena 200 membri, quasi tutti residenti a Skopje.

Il rapido sgretolarsi della continuità linguistica costituisce motivo di grande preoccupazione per le vecchie generazioni ebraiche della capitale bulgara, dal momento che uno degli scopi dichiarati della comunità è quello di tramandare la lingua degli antenati ai più giovani. In tale direzione si muove l’organizzazione Shalom, da anni impegnata nella preservazione del ladino attraverso diverse attività tra cui corsi di lingua, seminari e conferenze specialistiche dedicati a questo tema. Particolarmente significativo è anche l’operato del suo “Club ladino”, il quale qualche anno fa ha pubblicato due volumi dal titolo Para ke no se olvide (“affinché non si dimentichi”) con racconti di autori locali di origine ebraica in versione bilingue ladina e bulgara.

Una lingua dalla storia multigrafica

Iskra Dobreva, ricercatrice bulgara in filologia iberica e balcanica, è specializzata nella ricostruzione storica di questa lingua attraverso i numerosi documenti custoditi negli archivi cittadini. La studiosa racconta di come le sue testimonianze scritte si presentino in tre sistemi di scrittura distinti: se nei primi secoli il ladino si serviva prevalentemente dei caratteri ebraici, dalla fine del XIX secolo furono invece quelli latini a imporsi in maniera crescente presso la diaspora bulgara, a cui si aggiunsero degli interessanti casi di pubblicazioni con caratteri cirillici. Il ladino ha costituito per lungo tempo il sistema di comunicazione della cultura scritta e dei media ebraici nel paese, un fatto testimoniato nel paese dall’esistenza di più di un centinaio di giornali e riviste stampati in questa lingua nel corso del XIX e XX secolo; oggigiorno purtroppo non ne sopravvive nemmeno uno. Per quanto riguarda l’apprendimento della lingua in tempi odierni, la ricercatrice stessa, pur non avendo radici ebraiche, ha seguito per anni e con grande successo i corsi offerti dal “Club delle signore” presso la comunità sefardita locale. E proprio le attività di questo particolare club tutto al femminile hanno ispirato un prezioso documentario realizzato dai registi Georgi Bogdanov e Boris Missirkov.

Il ladino come motivo letterario: Elias Canetti e Angel Wagenstein

Fra gli scrittori bulgari di origine sefardita del 1900, spiccano i nomi del premio nobel Elias Canetti e di Angel Wagenstein. Canetti, scrittore di lingua tedesca nato nella città danubiana di Ruse ad inizio ‘900, ha dedicato alcune indimenticabili pagine del primo volume della sua autobiografia “La lingua salvata” ai suoi ricordi della lingua giudeo-spagnola parlata in famiglia da bambino. Pur avendo smesso di parlarla in seguito al trasferimento all’estero, questa è la lingua nella quale alcuni eventi fondamentali della sua infanzia gli rimasero per sempre impressi.

Forse però il testo più importante in cui il ladino risalta come fiero elemento di una cultura che non si lascia assimilare è rappresentato dal romanzo (in bulgaro) di Angel Wagenstein Daleč ot Toledo (“Lontano da Toledo”), apparso in italiano come “Abramo l’Ubriacone”. Il titolo originario rievoca una dimensione iberica mai dimenticata nell’esilio balcanico, in cui il miracolo della continuità linguistica di questa “piccola zattera solitaria perduta fra le onde imponenti del turco, del greco e dello slavo” si impone come esempio quasi miracoloso, e in cui la chiave di porta della casa abbandonata dagli antenati nella fuga dalla Spagna viene gelosamente custodita da decine e decine di generazioni.

Wagenstein, nato nel 1922 e tuttora intellettualmente attivo nella capitale, non ha mai smesso di parlare il giudeo-spagnolo, che utilizza anche come lingua di comunicazione scritta. Nel suo romanzo, ispirato a fatti autobiografici e parte di una trilogia dedicata al tema della diaspora ebraica, il tema del ladino viene trattato con ironia e nostalgia, anche attraverso l’utilizzo di vivaci espressioni sefardite e alla descrizione degli intensi contatti interetnici fra le varie comunità della città natia di Plovdiv negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale e immediatamente successivi ad essa. Nel rapportarsi a questa lingua, la dimensione della memoria appare come elemento imprescindibile dal momento che il ladino, afferma Wagenstein, no es una lengua, es el recuerdo de una lengua (“non è una lingua, è il ricordo di una lingua”): essa dipende dunque dalla volontà di ricordare il passato migratorio dei propri antenati e di coltivare una forma di appartenenza multipla a livello spaziale e temporale. A questo affascinante idioma che è stato in grado di attraversare confini geografici, culturali e linguistici e di resistere dopo più di mezzo millennio di permanenza in Bulgaria auguriamo pertanto un lungo futuro di prosperità con un tipico detto sefardita: Kaminos de leche i miel! (“Cammini di latte e miele!”).

Chi è Giustina Selvelli

Assistant professor presso l’università di Nova Gorica, si occupa di migrazioni e lingue, di minoranze e confini, di diversità bioculturale e sistemi di scrittura.

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