OCCIDENTI: Venezuela, un paese diviso dopo Chavez

di Lorenzo Bodrero

I media occidentali calano il sipario sul Venezuela del neo eletto presidente Nicolás Maduro. Spenti i riflettori sulle elezioni presidenziali e sui successivi tafferugli, si lasciano alle spalle un paese letteralmente spaccato in due che probabilmente torneranno a ignorare.

“Il paese è diviso. Qui è come l’Italia del dopoguerra: chi non ha niente vuole avere quello che gli altri hanno solo che in Italia la gente ha lavorato per arrivarci, qua invece insegnano che non c’é bisogno di lavorare, che il benessere è un diritto divino e che chi ha fatto i soldi è un fetente”, ci dice Guillermo Basile1, 43 anni, imprenditore nel settore alimentare e figlio di italiani trasferitisi a Caracas nel 1960. “Ho votato Capriles e se sei un imprenditore è bene tenere un basso profilo su certe cose”.

Alfredo Ascanio è un avvocato di 66 anni e secondo lui la morte di Chavez non fermerà la rivoluzione chavista: “Maduro è un genuino rappresentante della sinistra, l’ho votato perché è un prodotto della rivoluzione Chavista e in quanto tale riconosce le masse come parte del popolo per il governo dello stesso”. Due posizioni diverse, due idologie opposte che in Venezuela non ne vogliono sapere di conciliarsi. Due paesi in uno.

Dall’immediato dopo-voto la tensione nel paese, e soprattutto a Caracas, è schizzata alle stelle. Troppo risicato il margine di sconfitta per la destra, troppo pochi quei 265mila voti di differenza su 13,2 milioni di votanti per ammettere l’ennesima sconfitta dopo 14 anni di dominio chavista. Troppo forte la tentazione di gridare allo scandalo e denunciare brogli.

In pochi credevano che Capriles Radonski, quarantenne governatore della Miranda, potesse insidiare il ruolo di Presidente a Nicolás Maduro, delfino di Chavez e presidente ad interim dopo la sua morte. E invece nessuno è mai andato tanto vicino a sconfiggere il Partito Socialista Unito di Venezuela. A un mese dalle elezioni i media davano Maduro favorito con un margine di vittoria a doppia cifra. Un distacco evaporato dopo soli dieci giorni di campagna elettorale e assottigliatosi fino raccogliere il 50,8% delle preferenze contro il 48,9 % del suo avversario.

La sera del 14 aprile, ultimato il conteggio dei voti, Capriles da subito si è rifiutato di riconoscere la vittoria del suo avversario e ha preteso un immediato riconteggio dei voti cartacei, esortando i suoi sostenitori a scendere in piazza. Al rifiuto di Maduro sono cominciati gli scontri: aggressioni alle sedi del partito di governo, a case private e a singole persone, incendi, attacchi a undici centri medici pubblici (CDI). Impietoso il bollettino diramato  dai media governativi, che citavano il procuratore generale venezuelano: otto morti, tutti pro-Maduro, e danni per milioni di euro.

“Non è così. I morti erano sia chavisti sia rappresentanti dell’opposizione. Inoltre, i media si sono recati sui luoghi che sono stati bersaglio di presunti attacchi e hanno constatato che i CDI erano tutti perfettamente intatti e operativi”, confida un giornalista politico di El Universal che preferisce rimanere anonimo. Sulla stessa linea Guillermo: “Non hanno mostrato una sola immagine di quei danni. Io non ho visto la violenza che dice il governo”. Poche ore prima, il dietro-front di Capriles verso i suoi sostenitori che li esortava a non scendere più in piazza onde evitare ritorsioni governative era rimasto parzialmente inascoltato.

La battaglia si è presto spostata anche sui media, alcuni dei quali – aperti sostenitori di Capriles – hanno fatto uso improprio di immagini d’archivio. Due giorni dopo le elezioni, El Nuevo Pais ha mostrato in prima pagina una fotografia di urne gettate e abbandonate in grandi fosse all’aperto, accusando il Comitato Nazionale Elettorale di brogli e gridando al complotto, immagine però risalente al 2007. Una corrispondente del giornale spagnolo ABC invece ha utilizzato una foto degli scontri di piazza Tahrir in cui si vede la polizia malmenare una giovane attivista, accusando così il governo venezuelano di metodi fascisti nel sedare le manifestazioni.

L’avvocato Ascanio però non ha dubbi: “I manifestanti di destra sono responsabili della morte di otto persone e del ferimento di oltre sessanta. Hanno attaccato strutture mediche e alimentari create dalla rivoluzione appositamente per il popolo”. In merito agli scontri, la CNN non è stata in grado di verificare in maniera indipendente le notizie riportate dai media governativi.

In un paese in cui una fazione accusa l’altra e non esistono media indipendenti, la verità è un concetto relativo. “Il governo ha tentato di creare una matrice di opinione basata su un presunto piano golpista che presupponeva la distruzione di beni pubblici”, mi confessa il giornalista di El Universal, il quale prosegue: “Fin da domenica sera Capriles ha sì spinto i suoi a protestare ma in maniera pacifica. Laddove Capriles dice ‘pace’ i chavisti affermano di aver sentito ‘guerra’, nel tentativo di mostrare l’opposizione come una forza violenta”.

Sulle responsabilità degli scontri avvenuti in tutto il paese non ha invece dubbi Hendryna Vivas, ingegnere meccanico di 27 anni. Attivista politica e fedele sostenitrice del chavismo, giovedì scorso si è recata alla veglia di “una vittima del fascismo. A un certo punto entra una donna con in braccio un bimbo di circa tre anni. Gli dicono ‘tuo papà è qui’. Il bimbo osservava suo padre..30 anni…magro e bianco come un lenzuolo, gli occhi chiusi, indossava l’uniforme della polizia”. Hendryna a stento tratteneva le lacrime: “Il bimbo sorrideva, diceva ‘papi..papi’…non so descrivere cosa ho provato in quel momento…”.

Intanto alla cerimonia di investitura Maduro ha dapprima accolto le delegazioni di sedici paesi e poi giurato per un Venezuela “libero, felice e socialista”. Tra gli altri, erano presenti i presidenti Ahmadinejad (Iran), Cristina Fernandez (Argentina) e Dilma Rousseff (Brasile). L’assenza di Capriles ha confermato il rifiuto a riconoscere il nuovo presidente da parte dell’opposizione e mantiene vive le tensioni all’interno del paese, solo parzialmente sopite dopo il via libera del Comitato Elettorale Nazionale al riconteggio dei voti.

“La nostra società è divisa e polarizzata. E’ questa l’eredità di Chavez: quattordici anni di discorsi violenti e ostili hanno frammentato il nostro paese – mi ha confessato con rammarico Tatiana Rodriguez2, disoccupata di 38 anni che vive a Caracas – Le famiglie sono divise, si litiga tra vicini, il confronto – anche violento – è all’ordine del giorno. Il mio paese non è più quello di una volta, si percepisce odio dappertutto. Dobbiamo riconciliarci con noi stessi, gli anni di Chavez devono finire”.

La sinistra ha vinto, il chavismo prosegue. Ma per le strade e i cantieri di Caracas la classe operaia palesa un entusiasmo diverso, più equilibrato. Lo ha visto Guillermo, negli occhi e nei modi dei suoi stessi operai: “Sono andato in un mio cantiere…50-60 operai circa. Li ho subito visti svogliati, lenti, col muso lungo. Ho chiesto al mio ingegnere cosa fosse successo. Mi ha detto che sono così da quando Maduro ha preso il posto di Chavez, che sono depressi, al supermercato non trovano più quello che trovavano prima, che gli stipendi si sono abbassati… Fino a qualche mese fa erano contenti, mi gridavano ‘sei fregato, capitalista!’, serbavano la speranza del povero che sogna una vita agiata. Non è più così”.

La morte di Chavez prima e il ristretto margine di voti che ha portato Nicolás Maduro alla presidenza poi “dimostrano la debolezza di Maduro e della leadership chavista”, analizza il giornalista di El Universal. “Più di 700mila persone che alle elezioni di ottobre votarono per Chavez ieri hanno scelto Capriles. Il chavismo sa perfettamente di uscirne ferito e ha deciso di correre ai ripari tramite l’utilizzo della repressione per intimidire l’opposizione. Il Venezuela è sull’orlo della sua peggior crisi, con un inasprimento delle divisioni, della polarizzazione e della violenza, nel bel mezzo di una crisi economica in cui gli eredi di Chavez non hanno lo stesso carisma del loro leader”.

Intanto l’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur) ha riconosciuto lo scorso giovedì la vittoria di Maduro e ha esortato tutti i paesi a fare altrettanto. Il neo presidente venezuelano deve aver tirato un sospiro di sollievo a tale notizia ma ha anche dovuto incassare il via libera dell’Unione al riconteggio dei voti. L’operazione richiederà trenta giorni e al riconteggio si sono detti favorevoli anche gli Stati Uniti tramite il segretario di stato John Kerry, il quale però ha evitato di prendere una posizione sul riconoscimento di Maduro quale presidente legittimo. Una reazione prudente che la dice lunga sul già fragile rapporto che lega i due paesi, in cui i dissapori ideologici si scontrano con le necessità energetiche: nel solo 2011, il Venezuela ha esportato negli Stati Uniti circa 951 mila barili di greggio al giorno (8,3% delle importazioni americane). Una cifra enorme seppur in costante calo dal 2004 quando i barili esportati giornalmente erano circa 1,4 milioni. Questioni di geopolitica che hanno dirette conseguenze sulla popolazione venezuelana che in questi giorni affronta una crisi sociale.

“Siamo tutti venezuelani, dobbiamo considerarci fratelli”, è la speranza di Alejandro Moreno, studente di biologia a Caracas. “Il percorso di inclusione sociale avviato da Chavez e riconosciuto in gran parte anche dall’opposizione sarà di grande importanza per l’unità di tutto il Sud America. Il consenso che Maduro saprà ottenere da parte del resto della popolazione passerà più dalle sue attività sociali che politiche. Servirà pazienza, tanto lavoro da parte di tutti e, soprattutto, unità”.

Proprio quella che sembra mancare ad un Venezuela più diviso che mai.

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1 Il nome è di fantasia, i dati anagrafici e le dichiarazioni sono reali.

2 Il nome è di fantasia, i dati anagrafici e le dichiarazioni sono reali.

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