Le radici islamiche dell'Europa. Intervista a Massimo Jevolella

di Luca Bistolfi

Benché non troppo noto alla più parte del pubblico, il professor Massimo Jevolella, islamista e scrittore, è uno dei più attenti studiosi di problematiche islamiche e a nostro avviso uno dei più intelligenti. Quattr’anni dopo l’11 settembre, in pieno furore fallaciano, ha dato alle stampe un saggio dal titolo provocatorio, si direbbe in termini giornalistici, ma che noi preferiamo definire semplicemente equilibrato e assai informato: Le radici islamiche dell’Europa (Boroli). Ed è da qui che vogliamo partire per una ricognizione storica e religiosa dei rapporti tra il Vecchio Continente e la religione del Corano. Quest’intervista segue idealmente quella realizzata da Valerio Pierantozzi a Franco Cardini in cui si è parlato dell’importanza dell’Islam nella costruzione dell’identità europea.

Professor Jevolella, Lei è autore di diversi lavori sull’Islam, dal punto di vista sia politico sia religioso. Le radici islamiche dell’Europa ci sembra uno dei più stimolanti a partire già solo da titolo e assai coraggioso, visto che è uscito proprio quando ad esempio i libri di un’Oriana Fallaci vendevano milioni di copie in tutto il mondo e le sue tesi erano sposate dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Perché ha scritto questo lavoro? Che cosa ha voluto dimostrare?

Sì, lo ammetto, scrivere quel libro in quel momento è stato come lanciarsi a cavallo e con la spada in pugno contro un’intera divisione di carri armati. Tuttavia, non l’ho fatto per follia o per rabbia, ma per amore della giustizia. Il mio intento non era quello di colpire, di menare fendenti: già lo sapevo che in tal caso mi avrebbero disintegrato in meno di dieci minuti. Non volevo provocare i lettori della Fallaci. Desideravo solo rivolgermi alle persone non ancora travolte e accecate dall’odio e dai pregiudizi, per ricordare loro quale sia stato l’enorme contributo che la civiltà islamica ha lasciato all’Europa nel corso di oltre cinque secoli: quel mezzo millennio di fecondissima storia medievale che va all’incirca dalla fine del secolo VIII alla fine del XIII. Mi sono limitato a raccontare una serie di fatti basati su d’una massa sterminata di documenti storici inoppugnabili, che oggi nessuno studioso serio avrebbe il coraggio di contestare. E sono stati proprio gli storici occidentali, a partire dal secolo XIX, a riscoprire e a mettere in evidenza questi fatti. È stata un’opera corale, unanime. Compiuta, ripeto, non certo da fanatici “islamofili”, ma da sereni studiosi del calibro di Asín Palacios, Massignon, Gabrieli (padre e figlio), Grünebaum, Gilson, Lévi-Provençal, Lewis, García Gómez, Rodinson, Nallino, Levi della Vida, Renan, Nicholson, Pines, e molti altri che sarebbe troppo lungo elencare.

Quale accoglienza ha avuto da parte del pubblico e dei mezzi di comunicazione il Suo libro?

Il mercato editoriale, in quel momento, era assetato unicamente di “scontri di civiltà”. L’idea dominante era quella dell’Islàm nemico, violento, pericoloso. E gli estremisti islamici ce la mettevano tutta per avvalorare quest’idea. L’islamofobia era dilagante (anche adesso lo è, pur se la ruota della storia, soprattutto dopo l’elezione di Obama negli Stati Uniti, ha faticosamente cominciato a girare in una direzione diversa). Risultato: il mio libro è stato immediatamente emarginato, identificato come l’opera partigiana di un “fottuto islamofilo” (per dirla con le gentili paroline tanto care alla defunta signora Fallaci), e come tale è stato oggetto di pareri totalmente contrastanti ed estremi. Sul “Foglio” di Giuliano Ferrara, Giulio Meotti (10-12-2009) mi ha associato alla “banda” dei nemici di Magdi Allam e della democrazia, tanto per dirne una. Mentre, sull’altra sponda, personaggi molto esposti di una certa ultra-destra tradizionalista e antisionista, come Claudio Mutti, hanno manifestato un chiaro apprezzamento verso le mie tesi! In poche parole: ho rischiato di passare come uno stravagante fiancheggiatore degli estremisti islamici e come un emulo della odiatissima (o amatissima, a seconda dei punti di vista) ex-nazista Sigrid Hunke, che già nel 1960 con il suo saggio Il sole di Allah sull’Occidente aveva esemplificato in forma ancora più estesa molti dei concetti espressi nel mio libro. Tra i pochi a dibattere equilibratamente con me sulla questione è stato il professor Gregorio Piaia, il quale, sulle pagine della Rivista di storia della filosofia (n. 4, 2005, pp. 767-768), si è garbatamente limitato a criticare il concetto di “radici” islamiche dell’Europa, proponendo di sostituirlo con quello di un “debito” storico dell’Occidente verso l’Oriente islamico.

Una delle tesi storiografiche più note riguardo il rapporto Europa-Islam è che sotto l’Impero Ottomano i popoli dell’Est abbiano subito le peggiori angherie e che le riforme borghesi e occidentali di metà Ottocento, ad esempio in Romania, abbiano portato un vento di libertà a quei popoli. Qual è il Suo giudizio in merito?

In tutta sincerità e onestà, io le proporrei di rivolgere questa domanda al professor Franco Cardini (mio caro amico, che tra l’altro condivide in pieno la tesi delle “radici anche islamiche” dell’Europa). Molto di recente Cardini s’è occupato dell’islamizzazione balcanica e dello scontro degli Ottomani con l’Europa, culminato nell’assedio di Vienna del 1529. Io non sono abituato a pronunciarmi su argomenti che non conosco a fondo. E se penso alle milizie di Mladic e al genocidio di Srebrenica mi vengono comunque dei fieri dubbi sul ruolo di vittime innocenti che anche in passato avrebbero avuto i popoli cristiani dell’Est sotto l’Impero ottomano. Del resto, non è forse vero che il più feroce massacratore e impalatore di prigionieri nelle guerre balcaniche fu il cristianissimo principe Vlad Tepes detto Dracula? Non penso proprio che l’attitudine alla crudeltà e all’oppressione siano mai state un’esclusiva dei turchi. E poi, non sarebbe anche l’ora di sdrammatizzare un po’ queste antiche vicende, magari con un po’ di sorriso? Chi lo sa, per esempio, che il dolce più tipico e delizioso del Tirolo, lo strüdel, fu un’invenzione turca, diffusa nei Balcani e arrivata fino in Austria? Anche questa fu un’angheria subita dai popoli dell’Est?

In un altro Suo libro, Non nominare il nome di Allah invano. Il Corano libro di pace (ed. Boroli), Lei inverte ancora una volta la rotta della pubblica percezione dell’Islam. Vuole parlarcene?

Molto volentieri, perché è proprio in quel libro del 2004 (poi approfondito idealmente da Rawâ, il racconto che disseta l’anima, del 2008), che ho affrontato il tema della vera essenza dell’Islàm. L’urgenza che allora avevo era quella di demolire le tesi degli estremisti islamici non “dall’esterno”, ma fondandomi sulle parole stesse del Corano. Si trattava di compiere il lavoro esattamente opposto a quello di coloro che, nel nome della lotta contro il terrorismo jihadista, condannano in blocco l’Islàm e bruciano (a volte non solo simbolicamente) il Corano. Ho svolto in quelle pagine un serrato ragionamento, tutto rigorosamente basato sul testo arabo dei versetti coranici, per dimostrare che l’origine dei termini salâm (pace, salute) e islâm (abbandono fiducioso nelle mani di Dio) dalla stessa radice trilittera semitica s-l-m deve assolutamente essere intesa come la fonte di una effettiva equivalenza di concetti, e non come un’assonanza puramente superficiale. In parole più semplici: pace e salute sono il cuore stesso dell’Islàm, esattamente come l’amore del prossimo è la vera essenza della fede cristiana. L’uso violento del Corano nasce dunque dall’idolatria fanatica della Legge, e da un volontario fraintendimento del concetto di jihad. Contraddicendo spudoratamente la fede nel Dio “Clemente e Misericordioso”, si usa il nome di Dio per giustificare l’orrore, la disumanità e le stragi di innocenti. Il versetto 190 della seconda sura, riferendosi esplicitamente alla lotta contro gli infedeli, dice che i musulmani hanno il dovere di difendersi dalle aggressioni, ma ammonisce di “non esagerare”, perché: “Dio non ama gli eccessivi (al-mu‘tadin)”. Il termine mu‘tadin si può intendere anche come “aggressori”, ma il concetto non cambia: chi aggredisce è comunque un eccessivo, un estremista, un terrorista. Lo dice lo stesso Corano!

Che cosa l’ha spinta a interessarsi dell’Islam?

All’inizio, solo il fascino di una grammatica araba pubblicata a Palermo nel 1912. Mio padre da giovane aveva tentato di studiarla da solo, ma non ci era riuscito. Io nel 1979 decisi di rimediare. Cominciai anch’io da autodidatta su quel vecchio libro. Poi mi affidai a una guida sicura. Mi dedicai alla lettura del Corano e della Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Amari, e la passione si accese da lì. Non senza l’influsso decisivo delle letture guénoniane che mi aprivano lo sguardo sull’immenso tesoro letterario e spirituale della mistica islamica, il sufismo.

Vi sono molti studiosi, sconosciuti al gran pubblico, che hanno sempre perorato la causa eurasiatica, descrivendo la geopolitica in termini di unione tra l’Europa e l’Asia, ossia auspicando un’alleanza, sotto diversi profili, tra Cristianesimo orientale e Islam. Questi studiosi, ben lungi dal proporre una tesi ideologica, si sono fondati su dati storici esclusi dalle versioni ufficiali, che dimostrano quanto queste due religioni siano in realtà sorelle. Che cosa pensa a riguardo?

Si tratta di un argomento immenso e assai complesso, ed è difficile anche solo riassumerne le grandi linee in poche parole. Il Profeta Muhammad ebbe la certezza di collegarsi direttamente alla linea profetica che va da Abramo e Mosè fino a Gesù. E in effetti un grandissimo numero di elementi presenti nel Corano e nella più antica tradizione islamica manifestano con chiarezza la loro origine giudaica e cristiana. In generale, si può ben dire che l’Islàm abbia inglobato molti aspetti delle precedenti tradizioni monoteistiche, mentre, al contrario, sia il Giudaismo sia il Cristianesimo hanno sempre rigettato l’Islàm come una deviazione, un’eresia, un corpo estraneo. E io non penso che questa situazione storica si possa trasformare con qualche sforzo di buona volontà. I dogmi di fede, per la loro stessa natura, non sono modificabili. Se un cristiano dovesse credere che il Corano è “Parola di Dio”, non sarebbe più un cristiano. Se un musulmano dovesse credere che Gesù è la terza persona della Trinità divina non sarebbe più un musulmano. Se un ebreo dovesse credere che Gesù di Nazareth fu il Messia annunciato nelle Scritture non sarebbe più un ebreo. E dunque, è già una grande e consolante conquista quella di vedere i rappresentanti delle confessioni abramitiche abbracciarsi in un proposito di reciproco rispetto, e di collaborazione nell’affrontare i problemi più drammatici del nostro tempo: la fame, le guerre, le ingiustizie sociali. Nel nome dell’unico Dio dei credenti.

A Suo avviso perché la tendenza mondiale è quella di rigetto nei confronti dell’Islam? È sufficiente accampare la scusa del terrorismo per allestire una simile guerra condotta non solo con le parole ma anche con le armi?

Penso che le recenti rivoluzioni avvenute, e tuttora in corso, nel mondo arabo stiano modificando un po’ la percezione negativa dell’Islàm in generale. Ci si sta rendendo conto che anche nel mondo islamico può svilupparsi una sincera aspirazione per la democrazia. L’equivalenza “Islàm uguale oscurantismo e oppressione” sta forse cominciando a sgretolarsi. La globalizzazione e Internet infrangono tutte le barriere. Certo, l’Islàm è una realtà molto vasta e variegata. Quando pensiamo ai talebani ci scende un brivido nella schiena. Ma se pensiamo al moderatismo di Erdogan, alla possibilità dell’ingresso della Turchia in Europa, e ai milioni di musulmani delle nuove generazioni che vivono in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi democratici, e si considerano ormai occidentali a tutti gli effetti, allora accorgiamo che il processo storico di “fusione delle civiltà” è già molto più avanti di quanto non si possa immaginare. Chiediamo a un giovane musulmano nato in Italia che cosa pensa delle libertà civili, e avremo un’idea chiara di quello che sta accadendo. Il futuro è già cominciato, e almeno sotto questo aspetto promette bene.

Per secoli in Europa dell’Est, pensiamo ad esempio all’Albania o all’ex Jugoslavia, cristiani cattolici e ortodossi e musulmani hanno sempre convissuto pacificamente, salvo qualche fisiologica intemperanza. Dopo il 1989 invece è tutto saltato in aria. Come spiega questa inversione di tendenza?

La barbarie è figlia della paura. C’è stata un’ondata di panico collettivo. Il cemento rassicurante del comunismo si è sciolto all’improvviso, senza lasciare il tempo ai popoli di immaginare una realtà diversa. E nel vuoto si è fatta strada la paura. I problemi irrisolti e i risentimenti più o meno atavici sono esplosi di colpo, come il tappo di un cratere vulcanico spazzato via dalla pressione del magma.

Ritiene che alle spalle di quello che, con un’espressione infelice mutuata da Huntington, si chiama “scontro di civiltà” vi sia solo cecità politica oppure un progetto ben preciso di dissoluzione?

Credo che questa ideologia funesta sia uno dei peggiori prodotti culturali del declino storico della potenza nordamericana e della supremazia dell’Occidente in generale. Ma non sono così addentro nei misteri geopolitici per interpretarla come il Mein Kampf di una precisa strategia politico-militare planetaria. E se anche lo fosse, sarebbe comunque un segno ulteriore di debolezza e di sconfitta, e non certo di riscossa. Gesù ha detto: “Come può Satana scacciare Satana?” (Marco 3, 23). E come potrebbe la benzina di Huntington spegnere le fiamme del terrorismo di al Qaeda?

Quali sono a Suo avviso i punti di convergenza tra Islam e Cristianesimo, e quali quelli di divisione?

La pace, la giustizia, la solidarietà, l’amore del prossimo e la sottomissione alla volontà divina: questi sono i punti di convergenza che dobbiamo a tutti i costi valorizzare. Le divisioni nascono, come ho già detto, dall’odio teologico e dai rancori storici che dobbiamo a tutti i costi estirpare.

Da molto tempo si fa sempre un gran parlare di dialogo ecumenico e interreligioso. Che cosa ne pensa? Non ritiene che da una parte sia un modo per annullare le differenze e dall’altra, per paradosso, un modo per accentuarle?

Ripeto: le differenze fondamentali esisteranno comunque, anche quando l’odio e i rancori taceranno per sempre. Quindi il dialogo può e deve avere unicamente lo scopo di inaugurare un’epoca di comprensione e di valorizzazione reciproca. E poi, se Dio è ovunque, perché un cristiano non potrebbe pregarlo in una moschea o in una sinagoga, e un musulmano in una chiesa? Il nemico è il formalismo, l’idolatria della Legge, l’attaccamento cieco a una falsa identità esteriore. Dio legge nei nostri cuori, ed è lì, nell’intimo, che Egli distingue il vero dal falso credente.

A chi giova questo tipo di dialogo?

A tutti, perché la pace è il più grande dei beni comuni.

Che cosa pensa riguardo alla proclamata civiltà “superiore” occidentale rispetto a quella islamica?

È una barzelletta. Un argomento non serio, da lasciare a quelli che chiacchierano nei bar. Esiste un’unica civiltà: quella umana e mondiale, che si sta formando da migliaia di anni con il concorso di tutte le culture di tutti i popoli della terra. E basta studiare un po’ di antropologia per rendersene conto. In forma seria ma anche umoristica, io mi sono occupato recentemente di questo tema scrivendo un piccolo libro sulla storia del mal di denti (e il bravo Emilio Giannelli mi ha aiutato mettendoci una decina delle sue deliziose vignette). Basta affondare lo sguardo su un argomento universale come questo, per capire come fin dalla notte dei tempi la trasmissione dei miti e delle cognizioni, delle tecniche, delle superstizioni e delle usanze sia sempre avvenuta in un giro vorticoso di scambi fra tutti i popoli del pianeta.

Le lascio commentare un’espressione molto nota: esportare la democrazia.

Lasciamo fare a Internet e alle tv satellitari. Sono molto più efficaci e assai meno catastrofici. Non è certo grazie a qualche bomba intelligente se ora le donne saudite sfidano il potere guidando le automobili.

La Turchia in Europa: un pericolo, una risorsa, o cosa?

Un assoluto progresso, una benedizione. La Penisola Anatolica fa parte integrante della nostra storia. Enea non fu un troiano? L’antica Roma era più universalista di noi. E San Paolo non nacque forse a Tarso? Eccole anche lì, le nostre radici profonde.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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4 commenti

  1. Ma falla finita! 1000 anni di aggressioni, saccheggi, invasioni e massacri, dalla morte di Maometto all’assedio di Vienna e oltre: ecco cosa deve la Cristianità (mediorientale ed europea) all’islam (A parte la baggianata dello strudel).

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