UNIONE EUROPEA: Integrazione europea, un bene o un male per i singoli stati?

di Davide Denti

Quali sono stati i benefici e i costi dell’integrazione economica tra Europa orientale ed Europa occidentale? E’ vero che i paesi dell’est ci hanno rimesso? o ci hanno rimesso i paesi dell’ovest? E’ il caso di partire da qualche argomento di tipo economico.

Tre argomenti circolavano in particolare nella vulgata pubblica, negli anni attorno all’allargamento, sostenendo che il costo dell’integrazione fosse particolarmente alto, per i paesi dell’Europa occidentale. E’ il caso di riguardarli oggi, in prospettiva, anche per intuire quali sono stati effettivamente i costi e i benefici anche per l’Europa centro-orientale.

(1) Le esportazioni a basso costo dei paesi dell’est faranno fallire le nostre piccole e medie imprese

Al contrario, i dati economici dimostrano che le importazioni dei 12 nuovi stati membri (EU+12) sono cresciute più velocemente delle loro esportazioni. Questo perché tali paesi, per sviluppare le proprie economie e sistemi produttivi, hanno importato beni d’investimento (macchinari industriali, etc) dai paesi EU-15.

(2) Le nostre imprese si sposteranno in Romania, e la disoccupazione all’Ovest aumenterà

Ricordate il dibattito sulla delocalizzazione? Be’, in pochi anni è finito fuori dall’agenda politica, perché era un non-problema. Non si trattava di de-localizzazione ma di ri-allocazione; i 12 nuovi stati membri hanno rappresentato nuovi mercati per le imprese occidentali, in cui estendere la propria attività. Questo ha creato occupazione all’est, senza necessariamente distruggere occupazione all’ovest, come è evidente nel settore dei servizi (ad esempio il turismo). Di fatto, l’allargamento ha creato nuovi mercati di produzione ed esportazione per le aziende dei paesi EU-15.

(3) Saremo sommersi dall’invasione di lavoratori immigrati, e saremo costretti a rinunciare ai nostri benefici sociali e sindacali.

Una delle paure più antiche dell’integrazione economica è quella del dumping sociale causato da una massiccia immigrazione di manodopera a basso costo (ricordate i gastarbeiter italiani in Germania, o ancora oggi i transfrontalieri in Svizzera?).

Di fatto, tale fenomeno è stato molto limitato, anche perché diversi paesi hanno acconsentito ad una apertura solo graduale del mercato del lavoro (Germania ed Austria solo a partire dal 1° maggio 2011). Dove è avvenuto, come nel caso dell’emigrazione dei giovani polacchi in Gran Bretagna, i benefici sono stati globalmente positivi in entrambi i paesi: la Gran Bretagna ci ha guadagnato in crescita economica, la Polonia in rimesse ed investimenti.

L’allargamento ha avuto costi più psicologici che economici. Di fatto, è stato preso come capro espiatorio per problemi che sono invece tipici delle economie occidentali, dove i tassi di disoccupazioni sono legati alla bassa crescita e alla bassa innovazione dei sistemi economici per mancanza di adattamento alla globalizzazione e all’IT come nuovo paradigma tecnologico.

Al contrario, l’allargamento ha portato benefici in termini economici per i paesi dell’Europa occidentale: una maggiore integrazione del mercato ha permesso di sfruttare meglio i vantaggi comparati dei diversi territori, spingendo la specializzazione tecnologica. L’efficienza economica dei sistemi produttivi tanto all’est quanto all’ovest ne ha guadagnato, grazie all’aumento della competizione sui mercati, la possibilità di maggiori economie di scala, e la differenziazione produttiva.

L’allargamento ha prodotto un forte potenziale di sviluppo economico, che deve ancora essere messo a frutto nella sua parte maggiore. I nuovi stati membri possono contribuire rispondendo a tre sfide: la stabilità macroeconomica, con la riduzione di deficit e debito pubblico; la ristrutturazione e riqualificazione delle strutture produttive, che procede più velocemente quando in partnership con le imprese dei paesi EU-15; e infine lo sviluppo delle infrastrutture fisiche (trasporti e sistemi logistici) e finanziarie (sistemi bancari e borse valori).

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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