MONTENEGRO: Lekic, l'ambasciatore di Milosevic che vuole diventare presidente

Elezioni contestate

Il 7 aprile sono andate in scena le elezioni presidenziali in Montenegro. Due i candidati: da un lato il presidente uscente Filip Vujanović, uomo di Milo Djukanovic (padre padrone della piccola repubblica balcanica); dall’altro Miodrag Lekić, esponente dell’opposizione che in Montenegro è targata centrodestra. Una volta ultimato lo spoglio ecco che iniziano le contestazioni e le accuse di brogli, come in ogni sottodemocrazia che si rispetti. Filip Vujanović rivendica il 51,3% dei voti contro il 48,7% di Miodrag Lekić che dal canto suo sostiene di aver incassato il 50,3% delle preferenze e accusa il suo avversario di voler imporre nientemeno che un “colpo di stato”. Secondo Lekić circa il 4% dei voti sarebbero nulli, precisamente la differenza tra i due candidati. La Commissione elettorale centrale si è concessa 24 ore per decidere: le pressioni saranno molte e Djukanovic saprà certo far valere tutto il suo peso politico in favore dell’alleato Vujanović.

Chi è Miodrag Lekić

Miodrag Lekić è salutato da molti come un sincero democratico, uomo di esprienza diplomatica, dal profilo internazionale, colto e misurato. Insomma, riscuote parecchie simpatie al di qua dell’Adriatico anche perché negli ultimi anni ha passato più tempo all’estero che in patria. Tra il 1990 e il 1992 è stato ambasciatore in Mozambico, Lesotho e Swaziland: ambasciatore di una Serbia (che allora si faceva chiamare ancora Jugoslavia e che comprendeva anche il Montenegro) guidata da Slobodan Milošević che nel 1991 attaccò la Croazia e nel 1992 la Bosnia Erzegovina. Dal 1992 e il 1995, ha ricoperto la carica di ministro degli Esteri del Montenegro. Dopodiché è stato inviato a Roma, dove rappresentò la Jugoslavia di Milošević durante il conflitto con il Kosovo. Su quelle vicende ha anche scritto un libro, La mia guerra alla guerra basato sul diario che tenne durante il conflitto.  Dopo la guerra uscì dal servizio diplomatico, salvo poi essere riconfermato rappresentante diplomatico a Roma. Dal 2003 insegna Tecnica del negoziato internazionale alla LUISS di Roma.

Lekić guarda ai Balcani con occhi jugoslavi,  come scrive Matteo Tacconi su Osservatorio Balcani e Caucaso, egli è convinto che il tessuto di rapporti familiari, linguistici, culturali, economici  creato dall’esperienza jugoslava abbia lasciato in eredità una dote che le leadership della regione devono valorizzare evitando di rinchiudersi in piccole autarchie. La sua carriera diplomatica all’ombra di Milošević e Koštunica è però un grave fardello, anche se in quel periodo egli ha cercato di smarcarsi dalla linea politica di Milošević resta il fatto che era ambasciatore in Italia di uno Stato criminale.

La primavera montenegrina

Oggi si propone come presidente del Montenegro a capo di un partito appena nato, il Fronte democratico, che guarda a Belgrado quale “partner necessario” (secondo i suoi detrattori questo testimonierebbe il suo essere filo-serbo) e cerca di spezzare il monopolio di Djukanovic sfruttando il contesto di grave crisi economica (la disoccupazione ha raggiunto quasi il 20% con un salario medio inferiore ai 500 euro) e cavalcando la “primavera montenegrina”. Recentemente l’ong montenegrina MANS è riuscita a portare in piazza migliaia di persone a protestare contro il regime di Djukanovic. MANS è finanziata dalla Commissione europea, dalla rappresentanza dell’Ue in Montenegro, dall’ambasciata americana, e da fondazioni private che fanno capo all’Open Society Foundation, guidata dal filantropo miliardario George Soros. Tutte cose con cui Miodrag Lekić non ha nulla a che vedere ma che testimoniano come il clima stia cambiando nel paese e come il Montenegro sia oggetto di appettiti e investimenti tesi a mutarne il quadro politico al fine di accedere a fette di mercato fin qui dedicate, da Djukanovic e i suoi, a paesi “amici” come l’Italia o la Russia.

Il vecchio che avanza?

Se guardiamo alla democrazia, alla trasparenza, alla stabilità dei Balcani e al loro futuro europeo, certo Lekić è meglio di Djukanovic e della sua cricca. Assai meglio. Ma se, forse con eccessivo realismo, guardiamo al più ampio quadro geopolitico allora vediamo come le elezioni in corso possano essere il grimaldello con cui aprire il Paese agli interessi “occidentali”. Insomma, il rischio per i Balcani è sempre lo stesso: che indipendenza faccia rima con servitù, che sovranità significhi solo sudditanza nei confronti di questo o quel padrone. E in questo senso Miodrag Lekić sembra essere il vecchio che avanza.

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* La Repubblica federale socialista di Jugoslavia si disintegrò tra il 1991 e il 1992, a seguito dell’indipendenza di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia ed Erzegovina. Le altre due repubbliche jugoslave, Serbia e Montenegro (comprese le regioni autonome di Vojvodina e Kosovo) formarono il 27 aprile 1992 una nuova federazione denominata Repubblica federale di Jugoslavia, la cui struttura e nome vennero ridefiniti nel 2003, quando divenne Unione Statale di Serbia e Montenegro. Slobodan Milosevic rimase in presidente federale fino al 2000 quando, a seguito delle proteste di piazza, dovette riconoscere la sconfitta elettorale e lo scettro passò a Vojislav Koštunica, leader nazionalista cui forse è ascrivibile la morte del premier Zoran Djindijc. Nel 2006 il Montenegro votò l’indipendenza da Belgrado.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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Un commento

  1. Ciao,

    mi sembra un po’ riduttivo, fermo restando che la carica presidenziale in Montenegro conta davvero poco, definire Lekic il vecchio che avanza, tenendo conto che ha calamitato i voti di Mans e Montenegro Positivo. A questo va aggiunto che i volti nuovi-nuovi, in Montenegro, non hanno mai premiato. Vedi alla voce Nebojsa Medojevic, che con il Gruppo per i cambiamenti non è mai andato troppo in là con i voti. Quando ai finanziamenti a Mans, penso che difficilmente un movimento dal basso, a Est e nei Balcani, possa reggersi autonomamente in termini finanziari. Avrei infine dei dubbi sugli appetiti di mercato. Il Montenegro è un paese fortemente indebitato, con l’export legato a un’unica fabbrica (il Kap) decisamente improduttiva e un settore turistico che non riesce a uscire dal quadro della stagionalità. Di interessante c’è il potenziale energetico, che però non è mai sviluppato quanto quelli serbo o bosniaco. Comunque, staremo a vedere che succede. Di certo è che, finiscano come finiscano i conteggi, un po’ di cambiamento è arrivato, grazie al cielo. Saluti,

    M.

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