Oggi, 8 aprile, è la giornata internazionale di rom, sinti e caminanti. Ma non c’è niente da festeggiare. Da sempre e ovunque, queste sono le popolazioni più discriminate d’Europa. Non solo discriminazione, ma anche esclusione sociale e isolamento.
La parola rom, in lingua romanì, non significa altro che uomo. E i gagé – parola con cui in romanì si identificano invece i non rom – non hanno mai fatto un reale sforzo collettivo per considerare questa comunità come tale. Campi-rom, politiche per i rom, o peggio “caccia al rom” sono i concetti che regolarmente vengono associati a questo popolo. Animali, quindi, piuttosto che uomini e donne.
Solo due settimane fa, due comunità francesi sono state aggredite da 70 “uomini” in seguito alla diffusione di false notizie circa il rapimento di alcuni bambini, un episodio simile a quello che in India lo scorso anno portò al linciaggio e morte di otto nomadi. Per non parlare dei regolari attacchi armati che avvengono in Ucraina. Più recentemente, addirittura, un gruppo di fascisti, bianchi e cristiani ha preferito calpestare il pane – simbolo per antonomasia della carità cristiana – piuttosto che destinarlo in offerta a ottanta persone, per lo più donne e bambini.
Quella dei popoli romanì è una lunga storia, fatta di migrazioni, alternate da periodi stanziali. L’unica costante è l’odio di cui da sempre sono bersaglio. Una cosa a cui le società europee sembrano ormai del tutto assuefatte. Un meccanismo che porta a normalizzare le aggressioni, perché tanto “gli zingari rubano”. E quindi tutti colpevoli, tutti da rinchiudere nei campi, tutti da colpire, come la bimba di 13 mesi che l’estate scorsa rischiò la paralisi dopo che le spararono con un pallino di piombo.
Ed è lo stesso ragionamento che durante il nazismo portò alla deportazione, alla sterilizzazione e allo sterminio di circa 500mila rom e sinti, in quello che oggi la comunità ricorda con la parola porajmos, ovvero “devastazione”. E anche questa è una storia tutta europea.
In Europa si stima che i rom siano tra i 12 e i 15 milioni, che li rende la minoranza più numerosa del nostro continente. “Non è possibile avere una cifra esatta perché molti appartenenti alla comunità rifiutano di dichiararsi rom per paura di discriminazioni e ritorsioni”, dichiara per East Journal Marija Mitrovic, attivista per i diritti dei rom in Serbia.
Quello che separa rom e gagé è forse una diversa visione della società. I rom non hanno mai rivendicato uno stato. Non hanno mai abbracciato il concetto di stato nazionale. Non hanno nemmeno una religione propria, avendo sempre adottato i culti dei paesi in cui vivono. Ovvero tutti quegli elementi che unificano le nazioni – quel Dio, patria, famiglia che torna oggi di moda – cari a chi si rende complice di attacchi e aggressioni. Persino la lingua romanì non è parlata o conosciuta a tutti i rom europei. I gruppi Bejasi dei Balcani, così come i Kale in Spagna non utilizzano questo idioma, preferendo la lingua del paese di residenza.
Unico popolo a non aver mai intrapreso una guerra, i rom sono quindi destinati all’esclusione sociale anche per via del secolare rifiuto di quello che oggi si chiama “sovranismo”, che vede nei confini nazionali i nuovi altari della patria, nella politica l’unico strumento per aggregare consensi, e nella retorica nazionalista l’unico mezzo per compattare le comunità nazionali. I rom non hanno tutto questo. E chi scrive li invidia: una vita priva del desiderio di verificare che il proprio ammenicolo possa arrivare a chissà quali latitudini per imporre il proprio verbo non farebbe che bene alle società europee.
Il problema è anche comunicativo. Rom e gagé si escludono vicendevolmente in un mondo che sembra appartenere solo ai secondi, senza che ci sia un reale sforzo psicologico nello stare dall’altra parte. “Sarà sempre più facile odiare e discriminare piuttosto che provare a mettersi nei panni di chi spesso ha solo un pasto ogni due giorni, non ha accesso a sanità e istruzione, e viene discriminato nel mercato del lavoro”, afferma ancora Mitrovic.
Arrivati in fondo a questo articolo (per il quale ci scuserete se non abbiamo usato una foto-stereotipo degli zingari dei film di Emir Kusturica), non ha nemmeno senso citare i volti noti appartenenti a questa comunità: sarebbe una risposta banale a chi dice che “sono tutti uguali, tutti rubano”. Ha senso invece dire che il maggior pericolo sono le retoriche d’odio e che ogni esclusione sociale non può che essere reciproca, e quindi una sconfitta collettiva. I rom esisteranno, resisteranno e si adatteranno sempre. Come scrisse Karl Stojka, artista austriaco che sopravvisse al porajmos: “Ci possono calpestare, eradicare, gassare, ci possono bruciare, ci possono ammazzare – ma come i fiori torniamo comunque sempre”.
Un articolo coraggioso e totalmente condivisibile. I miei complimenti più sinceri. Buona e lunga continuazione